Draghi sul fisco resta ancora nel solco di Petrolini: “bisogna prendere i soldi dove è più facile trovarli, a casa dei poveri. Hanno poco ma sono in tanti”

Fisco by Draghi, nessuna riforma vera ma il mantenimento dello status quo, la progressività resta a senso unico e pagano i soliti noti. Sappiamo di essere contro corrente, ma la narrazione del Draghi “Re Mida” non ci appartiene, anche se occorre dare atto che, almeno sul piano della pandemia, pur con qualche sbavatura inevitabile, questo presidente del Consiglio è il miglior compromesso possibile per evitare di ritrovarci dalla padella nella brace sovranista. Resta però portatore di disvalori liberistici. Per citare con ardita leggerezza il cartoon Jessica Rabbit,  non è colpa sua, l’hanno “disegnato” così. In ogni caso dopo vari annunci e proclami, sul fisco è stato partorito il solito topolino e sui nuovi scaglioni Irpef 2022 il Governo ha trovato l’accordo. Inserita all’interno della “riforma” fiscale, la modifica dell’imposta sul reddito delle persone fisiche avvantaggerà però alcuni più di altri, pur nel solco tracciato da decenni di indirizzo di salvaguardia delle classi più agiate o per dirlo chiaro dei super ricchi. Diciamo invece che per i più poveri non cambierà nulla e anche versamenti, tempi di recupero e pagamenti,  saranno essenzialmente gli stessi.Tuttavia gli scaglioni scenderanno da cinque a quattro, con nuove percentuali di reddito e nuove aliquote. Ad essere eliminato è lo scaglione relativo all’applicazione dell’aliquota pari al 41%, restano invece gli altri quattro scaglioni.
Fino da oggi la situazione vedeva:
1° scaglione: contribuenti con reddito compreso tra 0 e 15 mila euro. L’aliquota Irpef è pari al 23% e corrisponde, in caso di reddito pari 15.000 euro, ad una tassazione di 3.450 euro.
2° scaglione: reddito tra 15.001 e 28 mila euro. In questo caso l’aliquota Irpef prevista per i contribuenti è del 27%;
3° scaglione: redditi compresi tra 28.001 e 55 mila euro. L’aliquota Irpef è pari al 38%;
4° scaglione: reddito da 55.001 a 75 mila euro. In questo caso l’aliquota Irpef da corrispondere sulla parte eccedente la quota di 55 mila euro è pari al 41%.;
5° scaglione: soggetti con reddito oltre i 75 mila euro, per i quali l’aliquota Irpef applicata è del 43%.

La modifica:

eliminando il 4° scaglione (reddito da 55.001 a 75 mila euro)  l’aliquota Irpef da corrispondere sulla parte eccedente la quota che era di 55 mila euro verrà calcolato partendo dalle eccedenze di 50mila. Nello specifico, la tassazione sarà così distribuita:

aliquota del 23% per i redditi fino a 15mila euro;
aliquota del 25% per i redditi tra 15mila e 28mila euro;
aliquota del 35% tra 28mila e 50mila euro;
aliquota del 43% oltre i 50mila euro.

Sui giornali ovviamente da settimane spopolano le simulazioni su chi ci perde e chi ci guadagna, ma in realtà ben altra dovrebbe essere la valutazione a partire dal fatto che  poco più di 20 milioni di italiani pagano il 56% dell’Irpef totale, di questi circa un terzo è nella fascia di reddito tra i 20 e i 26 mila euro, un altro terzo tra i 26 e i 30 mila e la restante parte tra i 30 e i 50 mila euro”. Aggiungiamo il dato che appena il 21,18% dei contribuenti italiani, con redditi oltre i 29 mila euro lordi l’anno, paga più del 71% dell’Irpef incassata (calcolo, riferito alle denunce 2020 sui redditi 2019) ed il quadro di come il meccanismo Irpef funzioni sostanzialmente solo per i contribuenti a reddito fisso diventa chiaro. Tolti quei 20 milioni di contribuenti e la manciata di “eroi” che dichiara più di 50 mila euro, sembrerebbe che l’Italia sia un paese  con assenza di ricchi,  dove gli agiati  sono solo pensionati e dipendenti. E’ evidente che non è così e non sarà certo la riformetta “Draghi” a modificare la situazione. Del resto per capire la genesi di una tassa apparentemente giusta ma palesemente iniqua, serve scorrere la genesi della tassazione fin dal primo dopoguerra. Nel 1948 la Costituzione stabilisce che “ Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività” (art. 53). Il che significa che la percentuale di tasse da pagare sale con l’aumentare della capacità contributiva. L’idea alla base è straordinaria se non fosse che è stata gestita nel tempo con lo scopo preciso sterilizzare quel principio di  progressività  facendo così pagare relativamente poco ai tanti e pochissimo ai pochi. Lo aveva capito già Ettore Petrolini, che non era un economista, ma un arguto comico dei primi del 900. Petrolini diceva che bisogna prendere i soldi dove in genere è più facile trovarli, cioè a casa dei poveri: «Hanno poco ma sono in tanti». Petrolini scriveva ovviamente in un’epoca da noi lontanissima, tuttavia a cento anni di distanza,  le sue parole sono attualissime, perchè la musica “fiscale” è la stessa. Lo Stato e i  Comuni sempre dai soliti noti vanno a bussare. Ma tornando alla cronologia della tassazione delle persone fisiche è nel 1974 che entra in vigore la riforma fiscale in applicazione dell’art. 53 della Costituzione, fissando lo spropositato numero di 32 scaglioni e stabilendo l’aliquota più elevata al 72% per la parte di reddito superiore a 500 milioni di lire. Quella cifra, in euro aggiornata sulla base del coefficiente ISTAT corrisponderebbe ai nostri giorni a 3.668.000 euro. Pare evidente che la cifra si riferisse a pochissimi super ricchi, i quali probabilmente hanno pensato che non fosse giusto trovarsi in questa ristretta cerchia di privilegiati mettendo in campo ogni sorta di elusione forti del fatto che, contrariamente ai dipendenti e pensionati, ai quali l’Irpef viene prelevata in busta paga, questi devono dichiarare motu proprio i redditi. Dura relativamente poco il sistema ad oltre 30 aliquote che rendeva ovviamente macchinosissimo ogni conteggio (così come ogni controllo) anche perchè tutto andava fatto con il pallottoliere o quasi. Erano le calcolatrici meccaniche con i nastri di carta a farla da padrone. Così nel 1983 si decise di ridurre a 9 gli scaglioni fiscali e di portare l’aliquota più alta al 65% per la quota superiore a 500 milioni di lire, ma che – a causa dell’inflazione – nel frattempo avevano perduto di valore, corrispondendo oggi a 858.868 euro, cioè un quarto della soglia stabilita nel 1974. In questo modo i ricchi sono aumentati come numero ma pagando molte meno tasse. Comunque troppe per alcune classi di privilegiati tanto che nel 1989 gli scaglioni sono scesi a 7, l’aliquota più elevata al 50%, applicata oltre la soglia di 300 milioni di lire, che indicizzati ad oggi corrisponderebbero a 336.833 euro. E così il numero dei ricchi è ulteriormente aumentato mentre l’imposta è diminuita ancora un po’. Nel 2007, nuovo millennio e nuova repubblica, si fa per dire, è stata rilanciata l’idea di un maggiore coinvolgimento di contribuenti “ricchi”. Gli scaglioni sono diventati 5, l’aliquota è scesa al 43% sopra la soglia di 75.000 euro, che ad oggi sarebbero 94.050 euro. Ed arriviamo ai nostri giorni governo e parlamento stanno approvando la nuova riforma fiscale che prevede per il 2022 di ridurre gli scaglioni a 4, mantenere l’aliquota più elevata al 43% applicata a partire da 50.000 euro. In questo modo nella classe dei più ricchi rientreranno tutti i contribuenti con redditi superiori a 50.000 euro. Tutto bene si dirà, ma in realtà attraverso questo appiattimento verso il basso dell’aliquota si compie l’ennesimo favore ai super ricchi che contrariamente al 1974 pagheranno non il 72%, nemmeno il 60 o il 50, ma il 43% stessa aliquota di un dipendente da 50mila euro. E’ una strana giustizia fiscale che poi, per far quadrare i conti, usa il giochetto delle “tariffe” dei servizi. Fa pagare ticket e imposte accessorie   (pur con qualche blando correttivo per gli indigenti)  in maniera uguale a tutti. Dalle accise sui carburanti e combustibili, alle bollette energetiche, dall’ acqua al gas, per non parlare dell’Iva che alla fine diventa anch’essa iniqua. Aggiungiamo anche alcune tasse di proprietà, come quelle delle auto, che sono commisurate al concetto di potenza dei motori e non di valore del veicolo, con il paradosso che auto dal bassissimo valore, ma con cilindrate generose, pagano molto di più di sportive dal valore 50 volte superiore. E anche le vecchie utilitarie pagano come le nuove che valgono molto di più.  Eppure delle ricette semplici per rendere equa la tassazione ci sono, per l’esempio delle auto basterebbe legare il “bollo” al valore del veicolo (cosa che fanno tranquillamente assicurazioni o giudici nei risarcimenti). Per non parlare della possibilità di applicare tariffe Iva diverse per reddito, semplicemente incrociando il dato fiscale individuale o familiare, con l’uso della moneta digitale. Che si possa fare lo dimostra la demenziale lotteria degli scontrini.,  che comunque ha evidenziato che il collegamento fra negozi e agenzia delle entrate funziona. Inoltre diventerebbe anche un formidabile e capillare strumento di controllo sui redditi. Forse proprio per questo nessuno ci ha pensato.