L’amaro Lucano

Sbalorditivo. Non so se possa esserci altro termine per definire, a parte quel senso di nausea che quella decisione provoca, la condanna di Mimmo Lucano; una sentenza che lo mette alla stregua dei peggiori criminali, naturalmente quando costoro vengono condannati. La prima cosa che viene da pensare, è che ciò sia frutto di una svista colossale, di una cattiva interpretazione della legge (e di conseguenza della giustizia). Pensandoci meglio e scartando la cattiva salute mentale di chi ha emesso la sentenza, questa assurdità non è altro che il frutto della campagna xenofoba e razzista, che ha ovviamente goduto di vasti appoggi e condivisioni, scatenata dalla “bestia”, quando era ancora in auge e ricopriva nientemeno che il ruolo di Ministro degli Interni.
Ho conosciuto Mimmo ormai nel lontano 2000, quando i progetti di accoglienza decentrata cominciavano ad avere una loro forma più definita e a livello nazionale si erano messi in rete quelli maggiormente significativi o che davano disponibilità concreta. Erano i tempi di Azione Comune, poi diventato PNA e finalmente assestatosi nello SPRAR. Riace era all’inizio del suo percorso, quello immaginato da Lucano, un percorso denso di mille difficoltà, ma dove avevano già trovato un tetto e assistenza parecchie persone giunte in Italia attraverso esperienze diverse. C’erano all’epoca, kurdi, kosovari e cominciavano ad arrivare gli africani, quelli che attraversavano il Mediterraneo e riuscivano a farcela. Una scommessa per nulla scontata, ma che esprimeva le idee e i progetti che Mimmo aveva in mente.
Non solo, dunque, l’accoglienza di chi arrivava in cerca di quella vita dignitosa che dovrebbe essere il diritto primario di ogni essere umano, ma che per i tre quarti della popolazione mondiale è semplicemente un sogno, ma che questo ideale si sposasse con un altro sogno; quello di rivitalizzare il borgo di Riace, facendolo vivere di nuovo. Dare senso a quelle case abbandonate da chi aveva dovuto accettare la stessa scelta di chi ora cercava protezione in Italia. Emigrazione si chiama.
Ricordo bene com’era Riace la prima volta in cui ci sono capitato; un borgo dove la maggioranza delle case era stata lasciata a malincuore da chi non aveva avuto altre opportunità se non emigrare, cercare una possibilità di vita migliore. La gran parte di quelle case che avevano bisogno di essere sistemate, riadattate all’ospitalità’ decente di chi stava arrivando. Se si fosse voluto trovare Mimmo sarebbe stato inutile andarlo a cercare nel palazzo che ospitava l’associazione che lui e pochi altri avevano fondato. Molto meglio seguire i rumori che arrivavano dalle viuzze che si inoltravano nel borgo e che rappresentavano i segnali dei lavori in corso. Lì si trovava Mimmo, a fare malta, lui e I suoi amici, a mettere mattoni uno sull’altro, insomma risistemare le case che il tempo e la chiusura prolungata avevano reso poco agibili. In parole povere, dando forma al suo sogno.
Riace, un borgo spopolato, con un baretto e alimentari sulla piazzetta in faccia al belvedere; con l’unico appuntamento che dava vita a quel paesino; la festa dei patroni, san Cosma e Damiano, patroni anche dei Rom e dei Sinti calabresi che si riunivano lì in settembre a celebrare I loro santi e concedersi tre giorni di festa. Anche in estate solo qualche turista arrivava fino lassù, in cima alla salita che porta al borgo.
L’idea di Mimmo è sempre stata quella di far rivivere quel suo paese, di riempire quelle case abbandonate e di dare loro di nuovo un’anima. Che lo si potesse fare dando un tetto e un boccone a chi ne aveva bisogno, poi, non poteva che essere un valore aggiunto; un gesto di civiltà. L’entusiasmo con cui raccontava i suoi progetti era contaminante, coinvolgente. Che ci abbia rimesso del suo sudore e impegno nel valorizzare quelle case, non c’è dubbio, tanto quanto coloro che con lui condividevano quella che a molti appariva follia.
Ricordo con immenso piacere le cene a casa sua, i piattoni di pastasciutta che tra un discorso e l’altro si svuotavano. Ciò che con maggiore piacere ancora mi torna in mente, è che ogni tanto, guardandomi, mi diceva: “io e te la pensiamo allo stesso modo”. Non mi illudo certo di avere fatto tutte le cose che lui e’ riuscito a realizzare e nonostante alcune mie perplessità; mi illudo piuttosto che quelle parole corrispondessero alla realtà. Perché’ pensarla come lui, significa stare dalla parte giusta; su questo non ci sono dubbi. Difendere i diritti dei più deboli non può mai essere sbagliato.
Che poi la burocrazia abbia le sue regole, purtroppo bisogna tenerne conto; che spesso la burocrazia non rifletta la realtà delle cose e che a volte il mancato rispetto di quelle regole non è più scelta ma necessità, è altrettanto vero. Se io nella mia vita avessi dovuto sempre seguire le regole, non solo avrei probabilmente contribuito a produrre delle ingiustizie, ma sarei andato contro i miei principi ed in generale all’etica. Mi è capitato in molte situazioni e nel mio lavoro di dover scegliere tra regole e realtà; se avessi dovuto adottare il regolamento alla lettera e attenermi a ciò che mi era imposto d fare, probabilmente ci sarebbe stata gente che alla sera non avrebbe avuto nulla da mettere sotto i denti. Mi è capitato più volte di dovere cambiare le liste che mi venivano consegnate per le distribuzioni del cibo in alcuni campi profughi, liste che erano evidentemente sbagliate e non aggiornate e in cui i nomi non corrispondevano alle persone che nel frattempo erano entrate o uscite da quei campi. Non ho mai avuto dubbi che adattare quelle liste senza che i grandi capi delle agenzie delle Nazioni Unite, che finanziavano quelle attività, ne venissero a sapere nulla era la scelta obbligata e soprattutto giusta. Certo, la burocrazia avrebbe previsto che nulla potesse essere toccato, ma ne’ io ne’ chi in quel contesto lavorava con me si è mai posto il problema, sempre convinti che questa fosse la prassi ideale e che non ci fosse nulla di anormale o speciale in tutto ciò.
Credo che questo sia il punto, che Mimmo abbia usato i finanziamenti che riceveva adattandoli alla necessità ci sta; che di quei soldi lui ne abbia mai messi in tasca è davvero fuori da ogni dubbio. Se parte di quei soldi non hanno seguito il corso delle previsioni che si inseriscono nei budget dei vari progetti, bene quei soldi sono finiti per realizzare le opere che magari all’inizio non si prevedono ma che con il prosieguo delle attività si rendono necessarie non dubito minimamente.
Se Riace era diventato un punto di riferimento per i tanti progetti di accoglienza, nonché’ un caso studio non solo in Italia, se è stato spunto anche per la realizzazione di documentari firmati da registi famosi, tanto da vincere premi per la bontà stessa di quell’iniziativa, significa che Lucano era ed è nel giusto. Che ci vuole una più libera interpretazione di quanto all’inizio, quando si scrive un progetto, si mette sulla carta. E che, quando necessario, ci possa essere una maggiore flessibilità nell’uso di quei fondi, naturalmente mantenendo lo scopo delle attività, e che tale prassi sia senza dubbio positiva se quello scopo si vuole raggiungere. Che poi una condanna di questo tipo non possa che essere un’aberrazione della giustizia, pur dovendo aspettare la pubblicazione delle motivazioni della sentenza, pare davvero palese. Ci sono, basterebbe avere la voglia di guardarsi attorno, ben altri progetti che come unico scopo hanno interessi personali che con l’accoglienza dei migranti hanno solo la parvenza di facciata. Ci ricordiamo di Roma Capitale? Oppure, per chi avesse la memoria corta tra coloro che si rifanno alle idee della citata “bestia” Salvini, sapremo mai dove sono finite quei famosi 49 milioni di euro di finanziamenti pubblici che la Lega ha fatto sparire? E a Mimmo hanno chiesto anche un risarcimento di 500.000.000 di euro!!!! Cento, mille Mimmo Lucano! Ne avremmo davvero bisogno.