Le elezioni regionali del 2023 sono vicine

In questa strana estate dominata dalle preoccupazioni e da eventi politici collaterali alla mutevolezza della pandemia di Covid19 val la pena di ricordare che si sta avvicinando anche il tempo dell’elezione della Presidenza e del Consiglio della Regione Friuli-Venezia Giulia. Sembra un traguardo molto lontano, preceduto da parecchi rinnovi comunali ma soprattutto da appuntamenti politici dominanti quali l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica e del nuovo Parlamento decapitato da oltre un terzo di componenti in seguito alle modifiche costituzionali.
In realtà la primavera del 2023 è dietro l’angolo e, se c’è da discutere di vere prospettive per il F-VG e non solo dei possibili schieramenti, è l’ora di farlo.

La inappetenza causata dal sistema politico italiano
Nessuno è in grado di scommettere se il sistema politico nella sua attuale articolazione in componenti rimarrà quello attuale o si troverà modificato nella sostanza. La “purga” Draghi probabilmente farà bene all’economia ma non mancherà anche di mettere in evidenza la indigeribilità di una quasi unica pietanza commestibile costituita dall’unità di un cosiddetto centro destra convinto di guadagnare ogni posta semplicemente ripetendo all’infinito messaggi di paura, intolleranza e privilegio.
Secondo un minimo di razionalità politica il coacervo conservatore e sovranista dovrebbe entrare in crisi e qualcuno in quell’ambito potrebbe esplorare le praterie aperte dal rilancio della spesa europea e pubblica con una più adeguata visione liberale ed euro-atlantica. Ma per ora tale ipotesi appare prettamente accademica. Complicata anche dai segnali di inflazione che stanno mettendo in allarme i dogmatici monetaristi.
Se poi ci si pone su un altro osservatorio e ci si chiede se tale percorso possa venir conteso da qualche marca politica che si autodefinisca di sinistra, ogni tentativo di vederci qualcosa di interessante finisce nella nebbia.
Non essendoci attualmente alternative credibili di un diverso approccio sociale e culturale all’intreccio dei temi politici ed economici complessi che perseguitano la post modernità, la cosa più logica appare un ulteriore allontanamento dalla politica di chiunque ragioni in prospettiva futura e non abbia specifici interessi “personali” da conservare o da raggiungere.
I “cittadini globali” verso cui ormai tendono ad orientarsi i “millenians” (nati a cavallo dei due secoli) e la stessa generazione “Z” (i figli di questo secolo) cominciano ad avere come obiettivo il dotarsi di competenze da usarsi nel loro nomadismo globale senza troppo badare all’essere anche cittadini di uno stato-nazione. La politica e la stessa democrazia delle proprie provenienze viene valutata in rapporto ai propri obiettivi individuali tenendo conto di una incertezza generazionale ormai dilagante che non riesce a vedere una propria stabilità di vita nei sistemi istituzionali storici (pensioni in primis).
Per la verità alcuni cambiamenti epocali sono avvenuti proprio nella percezione di urgenze improcrastinabili, la questione climatica e il rapporto uomo-natura-pianeta su tutto, ma l’inerzia esistenziale prevalente non riesce a farsene una ragione compiuta tale da determinare nuovi assi politici e permette di vivere nella illusione di adattamenti tecnologici, quando va bene, o, ancora peggio, trovando la giustificazione per mille rinvii.
Nel frattempo al vuoto della politica democratica si sostituisce la geo politica e il riaprirsi di nuovi disequilibri nei rapporti di forza globali e regionali con l’infittirsi della logica della violenza e degli armamenti sulla gestione delle conseguenze delle “disarmonie” emergenti. E continuiamo per default a fidarci degli stati nazione quali istituzioni a cui affidare il pensiero collettivo.

Quali prospettive per le elezioni regionali del 2023? Un dibattito da avviare.
Non mi riferisco a quella scadenza come occasione per dare un giudizio sulla qualità amministrativa messa in campo nell’arco del quinquennio di governo a marca leghista, piatta e clientelare (pur in un quadro generale di rilancio della spesa pubblica dopo anni di soffocamento), con una affannosa rincorsa ad una efficienza sanitaria forse irraggiungibile e ad una glorificazione del futuro logistico portuale quale messaggio dominante sul piano economico produttivo. Il mio vorrebbe essere un momento di riflessione sulla identità del territorio del Friuli e di Trieste nella sua prospettiva storico politica.
C’è da domandarsi se questa Regione e la sua “specialità” hanno ancora un senso o non sia piuttosto il caso di radicarsi meglio in un rinnovato nord est per goderne delle sue potenzialità espansive come raccomanda Francesco Jori sul MV e sul Piccolo di fine luglio. E come sostanzialmente si può fare con tanti piccoli atti che non presuppongono modifiche istituzionali ma una banale prassi di accordi ed abitudini che pian piano diventano norma accettata. Spesso anche razionali ed utili ma comunque tali da spostare i centri di intuizione e decisione strategica su una dimensione che per meglio connettersi al quadro globale pian piano dimentica il territorio e quanto esso può dare in una sua interpretazione non solo di occasione di inserimento nei mercati globali. Lo scontro nelle rappresentanze di Confindustria in F-VG, al di là delle connotazioni personali, non è banale.
Credo, per farla breve, che se la prospettiva di riferimento è unicamente quella italiana, nella sua attuale dinamica di selezionare gli assi di riferimento strutturale (economici e legislativi) non c’è alternativa ad un affievolimento delle ragioni di specialità e quindi di autogoverno dei territori che compongono l’attuale F-VG e che di conseguenza l’unità sottomessa al Veneto ed a tutto il nord est padano sia inevitabile.
Peraltro non si tratta di pura ritrazione di responsabilità da parte di classi dirigenti confuse ma di una semplificazione inserita nel nuovo modello strategico validato da Draghi nella prospettiva euro-atlantica (mediterranea) dove il nord dell’Italia ne esce rafforzato nella sua continuità con il sistema industriale franco-renano-bavarese lasciando probabilmente al sud la funzione strategico militare di guardiano del Mediterraneo.
L’attrazione fatale verso il Veneto non cambia molto rispetto al Friuli odierno in termini di sistema produttivo e di infrastrutture logistiche e tutto sommato può anche trovare modelli di soddisfazione per forme culturali di celebrazione da “piccola patria”. Forse potrebbero esserci delusioni per un rilancio ottimale di Trieste, ma tutto sommato il quadro limitato delle sue potenzialità di sviluppo in una prospettiva italica potrebbe non soffrirne eccessivamente.
La cosa cambia se, pur con un salto utopico, cominciamo a pensare ad un territorio del Friuli e di Trieste direttamente proiettato su una prospettiva da “repubblica europea” e da promotore di modelli di autogoverno territoriale dentro un quadro che, pur non trascurando l’evoluzione futura del nord est d’Italia (di cui comunque dovrà non trascurare le connessioni), lo renderà libero di essere un soggetto promotore di relazioni sovrastatali di carattere non solo amministrativo ma anche politico istituzionali.
L’occasione della contaminazione neo Keynesiana del “new Green Deal” ispiratore della NGE (Next Generation Europe) rispetto alla costituzione neo liberista della Unione Europea attuale non potrà mancare di far esplodere contraddizioni politico sociali quale possibile momento di partenza per una ridiscussione radicale dei fondamenti della stessa unità europea. Se da un lato lo sbocco attuale più gettonato in una prospettiva diversa, pur in evidente declino, appare quello sovranista più che altro per mancanza di altri prodotti sullo scaffale, prima o poi ci si accorgerà della necessità di una coniugazione ben più seria del tema politico economico e istituzionale per poter realmente affrontare il futuro del XXI secolo.
Se dovessi usare un nome per identificare questa necessaria prospettiva la chiamerei con i termini di solidarismo territorialista e farei riferimento non tanto ai temi della decrescita ma a quelli collegati al pensiero di E. Morin (“Cambiamo strada – le quindici lezioni del Coronavirus”, Raffaello Cortina ed., Milano 2020) ed alla scuola italiana di A. Magnaghi (“Il principio territoriale”, Bollati Boringhieri, Torino 2020).
A mio parere nessuno oggi è in grado di opporsi alla fase di “distruzione creativa” del capitalismo uscito dal XX secolo con le sue egemonie e dinamiche ormai disarticolate (dalla crisi del 2008, dalla incontrollabilità dei processi migratori e dalla pandemia) in nome di nuovi equilibri di potenza economici e politici in grado anche di farsi carico dei nuovi temi globali di sopravvivenza, quali il cambiamento climatico e la stessa distribuzione della popolazione umana sul pianeta.
Questa “distruzione” sta ridisegnando le nuove prospettive del capitalismo soprattutto in nome di un salto tecnologico che riguarda il futuro energetico e l’utilizzo delle enormi potenzialità nella trasmissione ed elaborazione dei dati, ma non sarà una festa da ballo e provocherà conflitti sociali e geopolitici di ampio respiro a tutte le latitudini. La vecchia Europa sembra oggi puntare tutte le proprie risorse su questa trasformazione pensando peraltro di evitare il più possibile le disavventure geo politiche, ma non può farlo trascurando i patrimoni e le potenzialità di una storia delle proprie comunità e dei propri territori che possono comunque permettere di affrontare con punti di vista diversi le stesse emergenze alla base della “distruzione creativa” del capitalismo.
Una chiave su questo ragionamento sta proprio nel modo di inquadrare la questione energetica. La corsa al rinnovo delle tecnologie ed alla creazione di nuovi business può svilupparsi secondo modelli di concentrazione di gestione e di affermazione degli attuali leader economici global-statali o attraverso forme diffuse di accesso che affidano la stessa evoluzione delle necessarie innovazioni (anche scientifiche e tecnologiche) proprio ai territori, alle comunità ed a tutto quello che può evolvere dai propri sistemi di relazione e di rappresentanza. Forse proprio a questo sarà legata anche la sopravvivenza e ristabilizzazione di forme efficaci di democrazia.
Purtroppo l’attuale Regione F-VG nella sua cloroformizzazione politica, se da un lato sembra aspirare a modernizzare le sue catene logistiche e produttive tutta affascinata dal luccichio tardo capitalista del post 900, dall’altro ha dimenticato qualsiasi valore innovativo del proprio “capitale territoriale” pensandolo di fatto come folklore da utilizzare quasi unicamente in chiave di banale marketing turistico. Solo una svolta radicale in altra direzione, con la ulteriore capacità di ripensare i propri territori in una dimensione geografica meno centrata sull’Italia e più su una Europa, potrà permettere un riemergere del “capitale territoriale” ed un suo riuso e valorizzazione secondo prospettive endogene e non esogene.
Se le elezioni regionali del 2023 riuscissero ad aprire una discussione, ed eventualmente a mettere in evidenza prospettiva politiche che si muovono in questa direzione potremmo cominciare a pensare ad un futuro del F-VG che riesca a definire una sua missione e quindi anche alle necessarie trasformazioni istituzionali che lo possano supportare.

Giorgio Cavallo