Middle East bazar

Ogni anno di questa stagione ci si scambiano auguri e speranze che il nuovo anno porti con sé quelle migliorie che sarebbero così necessarie per vivere, non dico bene, ma almeno decentemente. Ogni anno questi piccoli sogni si dissolvono ed in giro per il pianeta c’è sempre più gente che non sa cos’altro inventarsi per poter sopravvivere, mentre pochi altri pretendono di decidere come deve campare il resto dei suoi simili. Che evidentemente sono solo simili ma non uguali. Fino a ieri l’unica superpotenza rimasta sulla terra era quella che stabiliva vita morte e miracoli di tutti gli altri; ora invece altri soggetti hanno pretese simili e proporzionali alla loro potenza, che sia economica oppure militare. Ed è così che un conflitto che si protrae ormai da un trentennio, essendo cominciato nel 1991 in Iraq, non sembra ancora destinato ad esaurirsi nel prossimo periodo. Pare che le guerre che tutt’ora si combattono in Medio Oriente non suscitino l’interesse dei media che durante tutta la giornata ci sfiniscono con le loro notizie fotocopia che si ripetono puntuali ed uguali ogni mezzora raccontandoci le meraviglie che il nostro governo ci sforna sotto forma di bocconi avvelenati e che ci vengono spacciate come delizie. Certo, ogni tanto succede che un barcone che trasporta gente che spesso fatichiamo ad identificare come persone (meglio definirli clandestini così da avere almeno un alibi per dire che in fin dei conti se la vanno a cercare), si rovescia e chi ci stava sopra ci rimette le penne. Ed allora qualcuno deve per forza accorgersene. Ma si sa, questa è una disgrazia, cosa ci possiamo fare noi?! Oppure di tanto in tanto c’è qualche mostro da sbattere in prima pagina, qualche nostalgico dittatorello che viene identificato come responsabile unico della disperazione di chi in mezzo al gelo e alla neve prova a passare i sacri confini della nostra Europa. E’ chiaro che noi, invece, abbiamo la coscienza pulita anche se quei confine li teniamo sbarrati. Poi, però, spendiamo miliardi di euro per pagare altri dittatori o improbabili canaglie travestiti da guardiacoste per bloccare quei disperati evitando che cerchino rifugio nei Paesi, i nostri, che direttamente o meno sono i veri responsabili di queste fughe. Ma torniamo ai nostri eroi protagonisti dei giochi che dovrebbero ridisegnare le “aree di competenza” all’interno, o trasversalmente, dei due Stati che maggiormente esprimono gli appetiti delle “potenze” che devono spartirsi il bottino. Dall’inizio delle guerre, prima in Iraq e poi in Siria, gli scenari di quelle due nazioni, pur rimanendo formalmente con gli stessi confini precedenti, sono cambiati e di parecchio. Il Kurdistan iracheno (KRG) è ora una regione gestita con un’ampia autonomia con dinamiche di tipo federaliste e continuamente in lotta con il governo centrale da cui per certi versi dipende, ma e’ anche profondamente divisa. Nel 2017 ha avuto la brillante idea di indire un referendum per sancire la propria indipendenza, referendum peraltro stravinto con circa il 93 % dei voti, ma che ha provocato la reazione di Baghdad che non solo ha rintuzzato le pretese di Erbil (capoluogo del KRG), ma che ha dato al governo centrale la scusa per riprendere il controllo di Kirkuk, principale snodo dei traffici del petrolio di cui l’Iraq e’ ricchissimo e dove parte dei pozzi più importanti sono situati e controllati dal KRG.
Il sud del Paese, principalmente sciita è sì sotto il controllo di Baghdad, ma la corruzione dei vari governi che gli USA hanno imposto (e che l’Iran ha controllato) ha fatto sì che si creasse una frattura profonda con la popolazione, in larga parte giovane, che da due anni scende regolarmente in piazza chiedendo che i proventi della vendita di petrolio vengano gestiti con un minimo di trasparenza consentendo la ricostruzione e la redistribuzione degli enormi introiti che l’oro nero consentirebbe e la conseguente creazione di posti di lavoro. Queste proteste hanno pagato un durissimo prezzo alla repressione soprattutto da parte delle milizie sciite del PMU (Popular Mobilization Units) e le vittime tra i dimostranti sono varie centinaia. Il nord-ovest della nazione, l’Anbar e Niniva, a maggioranza sunnita, che’ stato il principale scenario del cosiddetto califfato dell’ISIS è ora controllato principalmente dalle milizie del PMU a predominanza sciita che fanno riferimento più alle autorità di Teheran, piuttosto che a quelle, sempre sciite, ma irachene. L’ingerenza dell’Iran negli affari iracheni e’ un dato di fatto ed è in grado di condizionare profondamente le decisioni del governo locale; inoltre quei combattenti rappresentano la spina nel fianco di cio’ che rimane della presenza delle truppe della “coalizione” a guida USA di cui chiedono il totale ritiro. La zona montagnosa del nord del KRG, la zona del Qandil che confina con la Turchia, ma anche il Sinjar che invece ad ovest confina con il NES (North East Syria), quello erroneamente chiamato Rojava che ne rappresenta solo una piccola parte, sono diventate il rifugio di ciò che rimane del PKK (partito dei lavoratori del Kurdistan). Ormai pochi uomini (e donne) combattenti che vengono regolarmente bombardati dall’artiglieria, dall’aviazione e ultimamente anche dai potenti droni turchi. I kurdi iracheni non vedono di buon occhio la loro presenza e nell’ultimo anno ci sono stati anche parecchi scontri tra il PKK e i Peshmerga (l’esercito del KRG). Nel frattempo, i turchi hanno pensato bene di costruirsi una base militare vicino a Mosul, appena sotto il Sinjar, la regione montagnosa abitata dagli Yazeedi, una comunità particolarmente vessata dall’ISIS e ora tormentata dai turchi che accusano i locali di essere alleati dei kurdi del Rojava, a loro volta appendice del PKK di Apo Ocalan.
Questo giusto per dare una rapida occhiata a cosa succede in Iraq. La Siria non è certamente messa meglio. C’è solo l‘imbarazzo della scelta sul da dove cominciare. E dunque partiamo dal nord ovest del Paese, quello controllato da Hayat Tahrir al Sham (HTS), gli eredi di Al Qaeda che governano, naturalmente applicando la legge della Shariah, la regione di Idlib. La Turchia da quelle parti ha parecchie basi e di fatto, anche se un po’ malvolentieri, appoggia HTS condividendo con quei gaglioffi l’unico valico internazionale attraverso cui passano gli aiuti umanitari. Parte dei quali ovviamente rimane in zona e a disposizione di chi controlla quella regione.
Appena più a nord, lungo il confine nord con la Turchia da Afrin e praticamente fino a Menbij, il territorio è sotto il controllo del Syrian National Army (SNA) una coalizione di vari gruppi armati alleati, armati e controllati dalla Turchia che differisce da HTS (con cui queste variegate milizie si confrontano spesso in sanguinosi scontri) solo per alcuni dettagli, ma la sostanza è la stessa. Certo, l’importante è che anche lì il controllo del territorio conceda anche prosperosi traffici di cui come al solito non sono molti ad approfittare. Gli stessi elementi, poi, controllano anche la parte ad est dell’Eufrate che va da Tal Abyad fino a Ras al Ain, città che confinano sempre con la Turchia e distano tra di loro un centinaio di km e per una profondità di un’altra trentina di km verso sud. In pratica di ciò che si definisce Rojava (terra dei kurdi occidentali) e governata dall’amministrazione autonoma, rimane poca cosa, praticamente una regione lunga un paio di centinaia di km da ovest a est (da Ras el Ain a Derek grossomodo) e una profondità media di circa trenta km da nord a sud. Il resto del NES, pur se governato dall’amministrazione autonoma, non si può considerare Rojava o Kurdistan, in quanto abitata prevalentemente da maggioranza araba. Maggioranza che si fa sempre più forte più ci si inoltra verso sud. Va da sé che per la popolazione araba essere governata dai kurdi, che formano la spina dorsale sia dell’esercito, le Syrian Democratic Forces (SDF), che dell’amministrazione autonoma, è boccone difficile da digerire; il fatto stesso che ultimamente i giovani, siano essi kurdi oppure arabi, sono loro malgrado costretti alla coscrizione, cioè all’arruolamento forzato e temporaneo nell’esercito, provoca ulteriori attriti tra autorità e popolazione. Ma a tenere sotto controllo che il governo centrale di Damasco non riallacci relazioni serie con il NES e non si riprenda quella regione, ci sono gli alleati USA. E’ chiaro che per i turchi accettare che il loro (sempre più debole) alleato nonché’ membro della Nato, appoggi, finanzi ed armi i loro principali avversari (i kurdi siriani) e ipotizzi una regione autonoma e quasi indipendentemente, si fa difficile. Non a caso direttamente o indirettamente, in varie fasi si sono appropriati (come visto prima, da Afrin fino a Ras el Ain) di una bella fetta di terreno che fino a prova contraria è però ancora Siria. Ed è qui che subentra il tentativo Usa di cercare di far quadrare il cerchio. L’attuale amministrazione autonoma del NES è governata dal Democtratic Union Party (PYD), partito legato al PKK e che dai turchi viene considerato terrorista. Un bel pasticcio per gli Usa che devono trovare un modo per fornire il loro appoggio ai kurdi mentre ancora fanno riferimento a quel partito. Ed è qui che da un po’ di tempo si gioca una partita che nelle intenzioni di molti potrebbe sistemare un po’ di problemi. Ma questa e faccenda che merita una riflessione a parte. Recuperare i rapporti con la Turchia, per gli Usa è obiettivo primario e parte della strategia di Washington per cercare di isolare la Russia, principale alleata e coinvolta nei combattimenti del governo di Assad, russi che in Siria hanno sia aeroporti che basi navali. Nel frattempo, per non sbagliarsi, i turchi continuano le incursioni in Rojava con i loro droni e le esecuzioni “mirate”; su questo almeno gli Usa non dovrebbero trovare nulla da obiettare…
Ecco, la Siria è la palestra in cui le distanze tra russi e turchi, larghissime in altri scenari tipo la Libia, sono almeno apparentemente, piu’ limitate ed esiste una certa collaborazione tra le due potenze. Per esempio, per ora gli accordi che hanno fino ad oggi evitato l’offensiva del Syrian Arab Army (SAA), l’esercito di Damasco, e l’alleato russo per riconquistare la sacca di Idlib (peraltro metodicamente e quotidianamente bombardata) e le pattuglie miste turco-russe nelle zone occupate dai proxy turchi, hanno fino ad oggi (ma non si sa ancora per quanto), tenuto.
Intanto, nel sud del NES, dove le truppe Usa si sono concentrate per tenere sotto controllo i ricchi pozzi petroliferi ed evitare che il governo centrale se ne possa di nuovo impossessare, l’ISIS si sta di nuovo ringalluzzendo. Dall’altra parte del fiume, ad ovest, le milizie sciite (principali alleati dell’Iran) si sono rafforzate, consolidando le loro posizioni, e di tanto in tanto sparacchiano qualche missile verso le basi Usa. Che naturalmente rispondono volentieri. Un po’ più a sud ovest, l’area di Al Tanf è sempre gestita dai soliti “ribelli” che periodicamente si allenano alla guerra istruiti dai “consiglieri Usa” di stanza nella vicina base.
Per completare l’opera, di recente ci sono stati “avvicinamenti” tra Damasco e alcuni tra gli Emirati del Golfo. Scambi diplomatici tra Siria e Abu Dhabi, sono ormai frequenti un po’ perché’ prima o poi il business della ricostruzione partirà e quello sarà un piatto molto ricco, un po’ perché’ con il recente Accordo di Abramo, riportare la Siria all’interno della Lega Araba, e magari poi allentare i legami tra Damasco e Teheran, farebbe comodo a tutti i Paesi del Golfo ed isolerebbe ulteriormente l’Iran.
Quanto poi ad Israele, i bombardamenti indiscriminati e che mirano ad obiettivi sempre più importanti (i imssili lanciati ultimamente più volte sul porto di Latakia significano un notevole “alzamento del tiro”), senza che nessuno, in particolare Mosca, abbia niente da ridire. Naturalmente nessuno fiata neppure di fronte al rafforzamento delle presenze dei coloni israeliani sulle alture del Golan, fino a prova contraria ancora legittimamente territorio siriano. Che poi ci sia lo zampino di Israele anche nel favorire la destabilizzazione del sud della Siria, la zona di Daraah, dove attentati ed esecuzioni mirate contro militari e servizi governativi sono all’ordine del giorno, pare almeno un sospetto legittimo.
Ecco, ognuno con la propria bancarella al mercato che cerca di comprare o vendere i propri prodotti e facendo in modo che il proprio punto vendita diventi sempre più stabile e remunerativo. Russia, Turchia, Emirati, Iran, Usa, Israele, ognuno impegnato nei propri affari; i milioni di persone che hanno lasciato la Siria e l’Iraq o che tuttora vivono nei campi profughi, possono tranquillamente aspettare. Se poi si rompono le scatole di vivere in situazioni impossibili e cercano di venire dalle nostre parti, beh allora sono proprio dei rompiballe e li rimandiamo a casa loro. Ahh, già, la casa….

Docbrino