Una Regione forse nata per motivi oggi dimenticati. Non c’è futuro senza gestire con saggezza le divaricazioni di prospettiva tra Trieste e il resto della regione

L’unità regionale è stata per molti anni il dogma su cui si è giocato il posizionamento di tutto lo schieramento politico italiano nei confronti dei pur deboli tentativi di “autonomisti friulani” di metterla in discussione e, dopo il trattato di Osimo, anche nei confronti del ben più forte municipalismo triestino addensato nella Lista per Trieste. La storia della Regione è stata anche un continuo equilibrio di disponibilità non solo finanziarie verso i territori. Le stesse leggi statali per la ricostruzione dopo il terremoto del 1976 non dimenticavano di istituire e finanziare gli enti di ricerca a Trieste.
In realtà il F-VG è, per lo stato italiano, una Regione nata per motivi geo politici la cui logica costitutiva va ricercata nella incerta situazione internazionale del secondo dopoguerra per poi solidificarsi in un vero e proprio spazio geografico e politico dedicato alla guerra fredda. Ufficialmente questo ruolo scompare nel 1989, trenta anni fa con il crollo dei “socialismi reali”.
Il 1989 simbolicamente è un anno chiave poiché da allora la Regione deve camminare con le proprie gambe e inventarsi schemi nuovi per giustificare la sua esistenza e la sua unità. E il 1989 è cruciale anche materialmente poiché con l’avanzare prepotente della Europa comunitaria gran parte degli elementi costitutivi della sua specialità in rapporto al sostegno alle attività economiche vengono a mancare.
Si aprono così due periodi di gestione regionale profondamente diversi. Quello che va dal 1993 al 2008 caratterizzato da una fase di trasformazione produttiva basata sul ciclo dei distretti manifatturieri e da un potente motore immobiliare di stimolo alla crescita finanziaria. Il periodo successivo dal 2008 al 2018 vede invece un deteriorarsi della manifattura che si riduce e seleziona al suo interno, un crollo del mercato edilizio e delle economie collegate, una disastrosa compressione della capacità di spesa pubblica.
Gli effetti di questi avvenimenti hanno ripercussioni diverse a Trieste, realtà relativamente statica dove tutto sommato negli anni l’iniziativa e il sostegno pubblico fanno da ammortizzatore, e negli altri territori facenti parte della Regione dove gli indici economici e sociali sono più oscillanti e dove la crisi del decennio 2008-2018 ha colpito più duramente.
La descrizione della situazione attuale può essere apprezzata anche nei suoi numeri nel lavoro del Cantiere Friuli predisposto dall’Università di Udine e documentato nel testo “Una grande spinta” a firma Fabbro, Paviotti e Tranquilli presentato pubblicamente nell’autunno 2018.
Quali prospettive si stanno aprendo e in che modo la Regione F-VG può diventare il motore di un processo di ricostituzione di un protagonismo positivo dei territori che la compongono? Discutere a priori di unità regionale o meno credo che oggi non abbia alcun senso, visto lo stato di precarietà della evoluzione statale italiana, ma le divaricazione che si stanno evidenziando devono essere inquadrate in una prospettiva di governo del tutto nuova.

Un quadro interpretativo per oggi e per domani
Cominciamo da Trieste. Pur con qualche difficoltà, tra cui inserirei la dipendenza dalla Turchia dei volumi di traffico “non oil” del porto, il capoluogo della Regione ha individuato una strada di rilancio basata sui tre assi: logistica portuale e dimensione marittima, da Fincantieri al diportismo, eccellenza nel campo scientifico e della ricerca, modello turistico basato sui valori attrattivi della città. A partire da queste scelte anche le molte difficoltà di carattere produttivo, Ferriera in testa, appaiono gestibili e potenzialmente superabili. Magari attraverso il mito dei futuri punti franchi ad insediamento manifatturiero.
Si firma molto in termini di protocolli di collaborazione internazionale, a Roma, a Shangai, e altrove, e c’è da sperare che risultati arrivino. Non sono molto convinto che ciò basterà ad un futuro radioso ma tutto sommato il consenso istituzionale multi livello a questo messaggio sembra dare le garanzie necessarie.
Ma la Regione non finisce al Lisert o a Panzano. C’è anche il resto che chiamerei Non-Trieste. Vale la pena di utilizzare questo nuovo termine geografico per evitare il “dannato e controverso” Friuli e chiarire che si sta parlando di quanto succede nello spazio dal Livenza all’Isonzo.
I dati interpretativi della realtà economica e sociale dello spazio Non-Trieste sono inequivocabili per il decennio 2009-2018 e danno l’idea di una realtà in totale ritrazione. Per semplificare, meno 10% sia in termini di PIL che nel valore delle retribuzioni, con punte più acute nella ex Provincia di Udine.
Nella sostanza le realtà economiche e produttive in questa area non sono state in grado di rientrare nei parametri pre crisi 2008, pur con un ammodernamento del sistema industriale e pur con buoni livelli di competitività, stando a quanto segnalato dai dati relativi all’export ed all’import.
Cosa è successo? La risposta a mio parere è banale. Sono mancati tra il 2011 e il 2018 dieci miliardi di spesa pubblica a causa del taglio diretto e indiretto di disponibilità per la Regione F-VG e per gli Enti Locali quale contributo al fallito “risanamento” del bilancio e del debito dello Stato. E contemporaneamente è finita l’illusione della “bolla immobiliare” che indirizzava in quel settore gran parte delle disponibilità finanziarie private, sia per il classico “mal dal modon” che per la più attuale ricerca di “beni rifugio”. In questi anni si è distrutto un sistema locale di economia e si è innescato un percorso di ritrazione che oggi sembra non recuperabile a meno della “Grande spinta” propugnata dal Cantiere Friuli e rivolta alla rigenerazione del “capitale territoriale”.
Qui sta la questione. Riguarda l’insieme della geografia che un tempo si chiamava Friuli. Rivolgersi al territorio, ai suoi patrimoni costruiti e naturali, ai suoi modelli energetici e di relazione per una nuova sicurezza e qualità ambientale, per un ritorno anche demografico agli spazi della ruralità, significa operare verso un “green new deal” fatto non solo di innovazione nel campo della produzione industriale ma capace di valorizzare tutte le potenzialità diffuse. Quelle edilizie e insediative in prima istanza.
Nasce allora la domanda. Le due realtà. Trieste e il Non-Trieste, sono o meno inquadrabili in una unica prospettiva di evoluzione?
I percorsi che si possono intravvedere hanno bisogno di visioni strategiche ben definite e, ad una proiezione di Tireste nelle dinamiche degli scambi globali non può corrispondere unicamente il territorio del resto della Regione pensato come supporto infrastrutturale della stessa. L’autocentratura della ricostruzione delle economie e della partecipazione di tutte le comunità del territorio ad una dinamica sociale e insediativa ha bisogno di politiche e risorse straordinarie dedicate.
Alla Regione F-VG va posta questa domanda e questa responsabilità. Tra le due realtà ci sono necessità e prospettive diverse, tra loro non incompatibili purché ambedue siano affrontate sulla base delle logiche che le contraddistinguono. La favola di un radioso futuro per tutti dalla piattaforma logistica va ridimensionata e intesa in quello che può realmente dare. Sostenere il mondo produttivo “green” nel confrontarsi con lo spazio globale è un minimo sindacale, ma non risolve i problemi sociali e di qualità della vita.
Se la Regione, anche auto riformandosi, riuscirà a costruire una risposta a questi temi ci potrà essere un futuro comune tra Trieste e il Non-Trieste; altrimenti ogni “nuova egemonia” non potrà che generare conflitti.

Giorgio Cavallo