Aiutiamoli a casa loro….
Aiutiamoli a casa loro…. Quante volte ci siamo sentiti ripetere questa frase a proposito della questione migranti; quante altre ce lo sentiremo ridire? Ma soprattutto, che cosa significa in pratica; in cosa consisterebbe questo aiuto?
Bene, prendiamo una situazione a caso, quella che ho vissuto più di recente, certo non l’unica; quella dei profughi siriani che tra sfollati interni e rifugiati ospitati in altri Stati rappresentano oltre la metà della popolazione. Partirei dallo sfatare una convinzione a cui la maggioranza di noi italiani, ma non solo, crede e cioè che gran parte di quelle persone premono sui nostri patri confini. Il solo Libano, per dirne una, ne ospita un milione e mezzo che corrisponde a più del 20% dei sui abitanti. Altri 5 milioni sono scappati e tutt’ora ospitati in Turchia. Poi ancora mezzo milione in Giordania. Altri sparsi un po’ per il resto del mondo. In tutta l’Europa ce ne sono un milione. Ancora quattro milioni circa sono quelli scappati dalle loro case, ma rimasti all’interno dei confini siriani. Si tratta di cifre “arrotondate” anche perché risulta difficile censirli con precisione, ma facciamo un attimo le dovute proporzioni e capiremo che alla fine il peso maggiore di questa tragedia non ricade sulle nostre spalle.
Ma come se la passa questa enorme quantità di persone ospitate in tutte queste diverse condizioni? Se si volesse sintetizzare, potremmo dire che se la passano maluccio, ma potremmo cercare di analizzare sommariamente i diversi contesti in cui si trovano. Naturalmente senza dimenticare che parte di questa gente continua a investire tutti i propri risparmi pur di uscire da quella condizione disumana e nonostante gli enormi rischi che quel viaggio comporta. È solo di ieri la notizia dell’ennesima, questa volta addirittura di dimensioni bibliche, “strage del mare” che in realtà dovrebbe essere definita “nel” mare in quanto non è certo il Mediterraneo il colpevole di queste sventure.
Bene e a parte queste nefande notizie che ormai quasi non fanno più cronaca se non di fronte alle cifre come per quest’ultima immane tragedia, dal Libano, dalla Giordania e dalla Turchia (ma anche dalla nostra “civile” Europa), i segnali che arrivano non sono certo buoni. In Turchia la recente campagna elettorale si è incentrata in buona parte sul come rispedire i rifugiati siriani a casa loro; naturalmente senza indagare se quella casa esiste ancora. È ormai da tempo che le relazioni tra la popolazione turca e i siriani ospiti in quel Paese, si sono pesantemente deteriorati e gli atti di violenza nei confronti dei profughi non si contano più. Nei territori siriani (kurdi) invasi da Ankara e gestiti da bande di solenni lazzaroni oltre che fanatici radicali, Erdogan ha già cominciato a costruire abitazioni per coloro destinati a rientrare; con le buone o con le cattive.
Nella zona del Nord Ovest siriano, sotto il controllo di HTS (ex Al Qaeda) sono rientrate circa 60.000 persone dalla Turchia, molte delle quali perché hanno perso anche la casa in cui abitavano a causa del tremendo terremoto del Febbraio scorso. Si tratta generalmente di famiglie che erano ospiti in Turchia da parecchi anni e i loro figli erano inseriti nelle locali scuole ovviamente imparando come prima lingua il turco, mentre il loro arabo è rimasto superficiale. Ora, a parte non avere più a disposizione alcune comodità basiche, come la casa e l’elettricità, i bimbi hanno perso anche gli amici di scuola, di una scuola decente. Figli e genitori ora non hanno più legami relazionali, sociali, le scuole sono quelle che i campi profughi possono permettersi. La lingua per i bambini rientrati dalla Turchia è diventata un limite e terreno di confronto e di irrisione con i compagni di scuola che ovviamente parlano l’arabo. Chi governa quelle aree è non solo HTS, ma anche SNA (Syrian National Army), gentaglia che non perde occasione per taglieggiare i residenti e per imporre il proprio fanatismo religioso ed arricchirsi in qualsiasi maniera.
Non esiste naturalmente solo il nord siriano naturalmente, la gente è fuggita da tutte le aree del Paese e basterebbe dare un’occhiata alla devastazione metodica che ha ridotto le città in rovina per capire che ovunque il ritorno comporta enormi problemi.
A tale proposito, basta dare un occhio a cosa succede ai profughi che il Libano sta ricacciando indietro indipendentemente dalla loro volontà. Il clima di intolleranza e di astio che la popolazione libanese prova nei confronti dei profughi siriani non è da meno rispetto a quanto succede in Turchia. Come sempre succede quando le cose vanno male e la gente tira la cinghia, la rabbia del popolo si indirizza nei confronti dei più esposti e gli stranieri (Europa docet), sono quelli che pagano il prezzo più alto. Ecco dunque che recentemente il governo libanese (sempre ammesso che da quelle parti ci sia uno straccio di governo) hanno arrestato 1100 siriani che in mancanza di meglio si erano rifugiati nel vicino Stato. 600 di loro sono stati arbitrariamente deportati in Siria e naturalmente parte di loro sono immediatamente stati arrestati, stavolta dalle autorità siriane, in quanto considerati disertori. Il loro destino sarà quello di finire o nelle famose patrie galere, oppure in alternativa incorporati nell’esercito di Damasco e probabilmente spediti in prima linea, visto che la guerra in Siria è tutt’altro che conclusa. Per gli altri, la sorte non è stata molto migliore; una volta cacciati al di là del confine, sono stati lasciati soli al loro destino senza sapere né cosa fare, né dove andare.
Non va certo meglio a chi invece dalla Siria non è uscito ed è ospite dei moltissimi campi allestiti alla bene e meglio un po’ dappertutto. Al di là delle davvero difficili condizioni in cui gli sfollati interni (ma nei campi naturalmente vivono anche molti non siriani) vivono, stanno emergendo anche problemi che nella fretta di trovare una sistemazione a questi ultimi tra gli ultimi, non erano stati considerati. Parliamo ad esempio del campo di Abu Khashab, un posto che ha già di per sé una storia particolare e che conosco molto bene; ecco, recentemente si è scoperto che il terreno su cui nel 2017 è stato costruito il campo che oggi ospita circa 11.000 persone avrebbe perlomeno due differenti possessori che ora rivendicano sia la proprietà che il rimborso dei danni che il mancato introito dello sfruttamento del terreno ha provocato.
Il primo, membro di una importante famiglia (che non significa che l’interessato sia ricco, quanto piuttosto che la famiglia o clan, in pratica lo sheikh e la sua cerchia di appartenenza sono facoltosi ed influenti) araba, sostiene documenti alla mano che la proprietà gli appartiene. Il secondo è un appartenente ad una famiglia cristiana armena che nel frattempo è scappato dalla furia dell’Isis trovando rifugio in Armenia. Anche il secondo rivendica la proprietà a suon di documenti e del fatto che la sua famiglia ha coltivato quei terreni sin dagli anni ’50. Ora, una soluzione va trovata perché a quanto pare un accordo, ma solo verbale, esisteva ma solo con il pretendente arabo. In alternativa, gli ospiti del campo potrebbero essere ulteriormente “sfollati”. Abu Khashab non è l’unico campo in cui esiste questa situazione, ce ne sono altri che condividono lo stesso problema; fatto che evidenza la consistenza del problema.
Secondo voi, in una situazione del genere, se uno degli ospiti di quei campi trovasse il modo di scapparsene dove pensa (ipotesi poi purtroppo tutta da verificare) di star meglio, cosa farebbe? Chi cavolo ha ancora il coraggio di dire: “aiutiamoli a casa loro, ma se ne tornino da dove sono venuti”. Bene, mala domanda rimane quella: “come”? Si attendono suggerimenti. Astenersi perditempo.