Il Tagliamento e la montagna d’autunno
D’autunno normalmente cadono le foglie e quando piove copiosamente il fiume Tagliamento tra Friuli e Veneto si ingrossa alimentando le ormai classiche polemiche sulla politica che non decide le opere necessarie a garantire la sicurezza delle popolazioni che nel suo ex delta vivono.
Che lo sbocco al mare del fiume della Patria fosse un vero e proprio delta o una enorme zona paludosa intrecciata a lagune non mi è noto ed è un argomento che non pare interessare gli attuali decisori e ancora meno le stesse popolazioni rivierasche.
L’urbanistica del XX secolo e la sua figlia primogenita, ormai erede globale dei vecchi poteri, “il governo del territorio”, hanno operato e operano in un contesto dove non si può che prendere atto di quanto esiste e delle sue dinamiche evolutive inarrestabili del quadro economico.
Questo significa che a Latisana e a S. Michele al T. assieme alle loro contigue perle turistiche permane la ferrea convinzione che tutto possa risolversi con una adeguata laminazione delle piene nel medio corso del fiume. Quello che c’era da fare nei chilometri finali del corso del fiume è stato fatto o comunque siamo lì vicino, diaframmatura degli argini, sopra elevazione dei ponti, calibratura del canale Cavrato, manutenzione e pulizia dei letti. Non può bastare. Se arriva una onda di piena da 4500 metri cubi al secondo e magari con uno scirocco che impedisce al mare di ricevere l’acqua, il 1965-66 è sempre dietro l’angolo.
La logica degli interventi idraulici ha imperato per lungo tempo sulla base di una logica di controllo del fluido acqua e del suo governo con opere sempre più artificiali che permettessero sia l’utilizzo della risorsa sia l’evitare gli eventuali danni su persone o cose. E talvolta poteva succedere che ne derivassero disastri là dove l’idraulica confliggeva, magari per motivi di interessi prevalenti (non sempre solo economici), con altre scienze come la geologia.
Sono trascorsi quasi 60 anni dagli eventi drammatici del 1965-65 lungo tutto il corso del fiume Tagliamento e si sta cominciando a capire che la gestione di un fiume nella sua complessità e nell’epoca del cambiamento climatico non può essere definita unicamente da una visione delle quantità idrauliche. I tentennamenti sugli interventi diversamente programmati nel tempo sul Tagliamento, pur in un quadro di azioni parziali spesso in contrapposizione tra loro, nascono proprio da qui. Dalla incapacità (e forse impossibilità pratica) di affrontare la questione accogliendo le diverse spinte che l’evolversi del quadro conoscitivo propone.
La stessa dicotomia che sembra palesarsi tra i sostenitori della conservazione della naturalità del fiume e gli ansiosi umani che temono per la propria vita e per i propri averi non sembra essere sufficiente a delineare certezze e scelte politiche adeguate. Perché magari proprio solo un adeguato accompagnamento delle dinamiche naturali possono determinare un maggiore quadro di sicurezza durevole per le proprie vite e per i propri averi.
Credo di conoscere la storia politica dell’emergenza Tagliamento come non molti altri, anche nei risvolti che magari non compaiono nelle documentazioni ufficiali. Mi colpisce la granitica sicurezza con cui talvolta si riportano le conclusioni del quasi recente round di promozione di iniziative che è conosciuto con il nome di “laboratorio Tagliamento” risalente intorno al 2011.
In quella occasione alcuni “soggetti” tecnici e politici misero a confronto le proposte di soluzioni “idrauliche” emerse da svariate fonti al fine di proteggere gli abitati del basso corso del fiume da eventi calamitosi. La discussione non era priva di interesse e metteva in campo novità interpretative non da poco. Tra queste per la prima volta si discuteva se la gestione delle piene era preferibile governarla con interventi sul medio ed alto corso o con inedite opere in prossimità della parte finale anche con coinvolgimento della Laguna di Marano da un lato e delle potenzialità di smaltimento sul lato occidentale, implementando il ruolo classico delle aree intorno al Cavrato.
I resoconti ufficiali parlano di una decisione granitica in favore di un bacino di contenimento a Pinzano (realizzato con una “porta” passante da far entrare in funzione al superamento di una determinata soglia) e di un rifiuto di ogni altra proposta in discussione. In realtà la prevalenza della soluzione “sbarramento soglia di Pinzano” è il risultato di una seconda votazione, con la presenza di rappresentanti veneti, dopo che la prima, in loro assenza, aveva dato la preferenza “tecnica” a soluzioni di deviazione delle piene nell’area a monte di Latisana. Si è trattato quindi di una prevalenza sostanzialmente politica chiaramente rivolta a salvaguardare urbanisticamente un’area di notevole importanza economica, rilevabile da chi confronti le immagini del carico antropico di oggi rispetto a quelle del 1966.
Nulla di scandaloso: ma va comunque riaffermato che quel “laboratorio” si era soffermato unicamente su questioni idrauliche e di praticabilità di realizzazione, nulla valutando in termini approfonditi di carattere ambientale e di proiezione futura delle caratteristiche fluviali. Che quella decisione sia poi diventata possibile normativa rappresenta a mio parere una forzatura che non regge proprio di fronte alla complessità della situazione attuale (anche previsionale rispetto agli effetti del cambiamento climatico) contraddicendo le sempre più consigliate modalità di approccio agli interventi in ambiente fluviale che suggeriscono di ampliare gli spazi di divagazione naturale piuttosto che le restrizioni idrauliche.
Mi rendo conto che questo significa chiedere un ulteriore rinvio della vecchia soluzione “Latisana” ed una revisione territoriale dei carichi di urbanizzazione anche esistenti, ma credo che il continuo presentarsi di fenomeni drammatici genericamente inquadrati nel termine onnivoro “dissesto idrogeologico” debbano farci assumere un atteggiamento scientifico maturo che metta sotto osservazione l’intero corso del fiume ed il suo bacino di potenziale espansione (oltreché di raccolta). Come detto non siamo alla stessa situazione del 1966. Le opere effettuate e quelle in corso di realizzazione danno comunque un margine di sicurezza superiore, magari meglio gestibili quando si potrà decidere dove dovrà incidere territorialmente una necessità di rottura del corso del fiume in caso di superamento dei limiti quantitativi oggi previsti, non lasciandola al caso. Ma il tema di governo del Tagliamento non ammette più semplificazioni: il Tagliamento, a dirla con Latour, è “un terrestre” dotato di autonoma volontà e capacità di perseguire propri obiettivi, e come tale, in democrazia, ha diritto, prima o dopo, di far sentire la propria voce.
Giorgio Cavallo