In Iran aumenta repressione. Migliaia gli arresti e la pena di morte usata come mezzo di repressione politica. Tiepida la risposta Ue
Fra le conseguenze della guerra in Ucraina c’è anche il quasi totale oscuramento di vicende, geograficamente altrettanto vicine, dall’enorme impatto geopolitico. Parliamo soprattutto di quanto sta avvenendo in Iran. Secondo Human RightsActivists News Agency, organizzazione che promuove la difesa dei diritti umani in Iran, finora sarebbero 520 i morti fra i manifestanti – di cui 70 bambini- mentre più di 19 mila sarebbero stati arrestati. Ma l’ultima notizia in realtà non arriva da Teheran ma da Bruxelles dove il Consiglio europeo, anche se fatica ad includere nella sua lista di organizzazioni terroristiche le Guardie della rivoluzione islamica iraniane, accusate di reprimere in modo violento le manifestazioni di protesta anti-governative nel Paese, ha deciso nei giorni scorsi di aggiungere 18 persone e 19 entità all’elenco delle persone ed entità oggetto di misure restrittive nel contesto dell’attuale regime di sanzioni in materia di diritti umani in Iran, in considerazione del loro ruolo nel “diffuso e sproporzionato ricorso alla forza nei confronti di manifestanti non violenti a seguito della morte di Mahsa Amini”. Tra le persone inserite nell’elenco figurano rappresentanti del governo e del Parlamento iraniano (Majles), importanti figure politiche e dei media, nonché membri di alto livello delle forze di sicurezza iraniane, compreso il Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche (IRGC) dell’Iran. Le nuove designazioni riguardano anche enti governativi e imprese private che forniscono servizi di sicurezza e svolgono attività che vietano, limitano o criminalizzano l’esercizio della libertà di espressione. Le misure restrittive si applicano attualmente a un totale di 164 persone e 31 entità. Consistono nel congelamento dei beni, nel divieto di viaggio nell’UE e nel divieto di mettere fondi o risorse economiche a disposizione di entità e persone inserite in elenco. È in vigore anche il divieto di esportazione verso l’Iran di attrezzature che potrebbero essere utilizzate per la repressione interna e di attrezzature per la sorveglianza delle telecomunicazioni. Certo è una presa di posizione significativa ma non è certo risolutiva e molto conterà se la mobilitazione in Europa sarà forte, nei confronti di un regime dove il fanatismo religioso è la cifra con la quale vengono regolati i conflitti sociali. Così ancora oggi decine di persone, tra cui alcuni minorenni, rischiano l’esecuzione per il solo fatto di aver accennato ad una protesta. In sostanza le autorità iraniane usano la pena di morte come mezzo di repressione politica per instillare la paura tra i manifestanti e mettere fine alle proteste. Ma in realtà quella di oggi è solo la classica punta dell’iceberg, l’Iran e la sua classe politico/religiosa resta drammaticamente coerente con una metodologia di occultamento di lunga data sulle violazioni dei diritti umani, cercando di disumanizzare le vittime, spiegano da Amnesty International, le autorità iraniane non hanno rivelato l’identità delle persone condannate a morte in pratica fino alla loro esecuzione . Le persone sono state sottoposte a processi iniqui, sono stati negati i loro diritti a essere difesi da un avvocato di propria scelta, mentre il principio della presunzione di innocenza viene sostituito da quello di imposizione di una verità che tale non è. Gli imputati devono solo ascoltare, rimanendo in silenzio. Non è data loro la possibilità di rispondere a domande di cui vengono fornite già le risposte dalla stessa accusa. Ovviamente secondo fonti ben informate, raccontano da Amnesty International, numerosi imputati sono stati torturati e le loro confessioni, estorte, sono state usate come prove nel corso dei processi senza che l’imputato potesse ritrattare pubblicamente. Le TV di stato hanno mandato in onda le ”confessioni” forzate di alcuni imputati, prima dei loro processi, così da orientare l’opinione pubblica. Come è noto è dal settembre dello scorso anno che la Repubblica islamica dell’Iran è scossa da proteste e scioperi scatenati dalla morte di Mahsa (Jina) Amini, studentessa curda 22enne, avvenuta mentre era in custodia della polizia morale di Teheran, rea di non aver portato “correttamente” il velo che vedeva intravvedere alcune ciocche di capelli. Sembra una follia, ma è questa invece la verità. Le manifestazioni si sono diffuse a macchia d’olio in tutto il paese e stanno coinvolgendo ampie fette della popolazione a prescindere dall’età, dal genere e dall’appartenenza sociale, continuando nonostante la sanguinosa repressione e il controllo di internet da parte delle autorità iraniane. Va detto che nonostante i divieti il web sta vendo un ruolo importante nella diffusione delle mobilitazioni. Soprattutto i numerosi video che circolano online e che mostrano i moti di rivolta, le violenze della polizia, e le scene di donne che bruciano l’hijab, se lo tolgono dal capo o si tagliano ciocche di capelli sono riusciti ad entrare in molte case. Grazie alla rete le notizie di quanto stava accadendo inizialmente solo in Kurdistan e a Teheran sono circolate ovunque. Ed è grazie ad un passa parola su internet nonostante funzioni in maniera discontinua, che le persone vengono a conoscenza dei raduni e si organizzano per scendere in piazza.
Da subito per ordine del Consiglio di sicurezza nazionale iraniano, sono state bloccate diverse applicazioni di messaggistica e social media, fra cui WhatsApp e Instagram, ma comunque il web non è facilmente arginabile. Twitter e Facebook, sono ufficialmente vietati fin dal 2009 (nonostante alcuni esponenti politici iraniani possiedano un account e abbiano condiviso i propri cinguettii regolarmente). Le autorità hanno fatto sapere che le restrizioni rimarranno in vigore fino a quando l’ordine verrà ristabilito.
È importante ricordare che bloccare l’accesso a internet viola il diritto alla libertà di espressione e all’accesso alle informazioni, oltre che il diritto alla libertà di riunione pacifica e associazione, sanciti dal Trattato ONU sui diritti politici e civili, di cui l’Iran è paese firmatario. In base alla legge, la Repubblica Islamica ha l’obbligo di garantire che ogni restrizione dell’accesso alla rete sia motivata per legge da ragioni di sicurezza, e che in nessun caso sia totale o si protragga per lunghi periodi, ma in realtà queste ragioni di sicurezza sono ormai la regola. Nelle autorità infatti cresce la paura dato che proteste e raduni, inizialmente motivati dalla morte di Amini, hanno dato voce a un più ampio dissenso rivolto contro la Repubblica islamica e la Guida Suprema Ali Khamenei.
Gli slogan usati nelle proteste rivelano quindi la sfiducia di una parte della popolazione nella possibilità di riformare il sistema politico iraniano. Secondo i manifestanti, il deterioramento economico, l’ingerenza del regime nella vita privata dei cittadini, la corruzione e il nepotismo diffusi e la repressione del dissenso politico hanno raggiunto il limite. Chi protesta vuole la caduta del regime e chiede un cambio di struttura politica, per questo il movimento di protesta fa molto paura agli ayatollah che si ritengono unici interpreti del Corano nonchè intermediari tra il Profeta e l’uomo. Quella contro il velo quindi è solo la punta dell’iceberg di un’insubordinazione diventata totale e rivolta contro il dominio teocratico iraniano. A scendere in piazza sono state per prime le studentesse, in molti casi bruciando simbolicamente il proprio velo o tagliandosi pubblicamente i capelli. La Repubblica islamica d’Iran vieta che le donne mostrino i propri capelli in pubblico, farlo è ritenuto un segno di immoralità. Il taglio dei capelli è quindi una forma di protesta contro gli standard e i canoni di moralità del regime. Oltre che per esprimere il dissenso verso l’autorità, la pratica è anche un segno di lutto e, quindi, di vicinanza a Mahsa Amini.
Rapidamente le proteste si sono ampliate, coinvolgendo ragazze e donne di ogni età che sono riuscite a motivare anche gli studenti maschi e poi uomini e donne provenienti da tutto il paese: dalle scuole alle fabbriche, dai piccoli centri urbani alle città, dalle classi meno abbienti a quelle più ricche e privilegiate. Le proteste innescate dalla morte di Mahsa Amini sono riuscite nell’impresa di superare le tensioni sociali e le distanze di classe che attraversano la società iraniana.