Opinione: Sul Muro
Qualche giorno fa ho avuto la fortuna di percorrere un lungo tratto del Vallo di Adriano, la grande opera di ingegneria militare romana edificata nel II secolo per separare l’Impero dai Barbari, tra il nord dell’Inghilterra e la Scozia.
Si è trattato di una visita di grande impatto emotivo, non tanto per la natura artistica dell’opera – in fondo è un lunghissimo tratto di muro di sasso simile a tanti muri a secco che vediamo nelle nostre campagne – quanto per la commovente bellezza dei paesaggi della Northumbria. Sembrano tutti uguali – colline verdi, macchie di alberi, pecore annoiate e l’onnipresente serpentone grigio del Vallo – ma basta che si sposti un attimo una sola nube che la luce cambia completamente, i colori diventano diversi e vallate prima di allora nascoste appaiono nitide e illuminate, per poi sparire di nuovo.
Inoltre, passeggiare in solitudine immersi nella storia induce alla riflessione. Una su tutte: perché oggi diamo una valutazione positiva del muro fatto erigere da Adriano mentre molti di noi sono così severi nei confronti del muro evocato da Trump ai confini con il Messico o di quello di cui parla (e straparla) il presidente della Regione Fedriga da collocarsi sul confine sloveno? In fondo, dovrebbe essere valutato allo stesso modo: una barriera per tenere lontani altri popoli e altre persone.
Invece si tratta di questioni totalmente imparagonabili per tre ordini di motivi. Innanzitutto, si dovrebbe pensare che i 19 secoli che ci separano dall’imperatore Adriano avrebbero dovuto aiutarci ad acquisire maggiore consapevolezza ed equilibrio nelle relazioni tra i singoli e tra i popoli e quello che si poteva accettare nel 122 d.C. dovrebbe sembrarci oggi inaccettabile. Invece la Storia – che sulla scia di Cicerone amiamo definire magistra vitae – sembra non abbia mai insegnato nulla: l’essere umano compie sempre i medesimi errori e i medesimi crimini e – in fondo – non si vede questa grande differenza tra i romani che compivano incursioni radendo al suolo i villaggi oltre confine, vendendone come schiavi gli abitanti, le rappresaglie dei nazisti o il comportamento criminale dell’esercito americano in Vietnam o in Iraq. Un nuovo muro è solo l’ennesima prova della nostra incapacità di imparare e di cambiare. La testimonianza dei nostri fallimenti, non della nostra forza.
La seconda ragione è di contesto. Il Vallo di Adriano serviva a prevenire un pericolo reale: incursioni frequenti e violente da parte di Celti e Pitti, con saccheggi e distruzioni ai danni delle popolazioni civili romano-britanniche. Questo non si può certo dire dei flussi migratori provenienti dal Messico agli Usa, dal sud al nord del Mediterraneo o dai Balcani: i migranti sono alla ricerca di un futuro migliore e la loro finalità non è mettere a ferro e fuoco le città che li ospitano ma, al contrario, costruirsi una vita quotidiana più tranquilla, sicura e prospera di quella che avevano nella terra che hanno lasciato. Non sono tutti santi i migranti, tra essi vi sono indubbiamente anche persone potenzialmente pericolose per la sicurezza collettiva, ma questo non toglie che l’edificazione di una Grande Fortezza Bianca non possa rappresentare una soluzione sostenibile sul medio-lungo termine, né sul piano etico, né sul piano strettamente politico.
Infine – e forse è la caratteristica più rilevante – il Vallo di Adriano merita un giudizio positivo perché si inserisce in una strategia più vasta di stabilizzazione dell’ordine politico interno ed esterno all’Impero. Il “muro” serviva anche a fissare una volta e per sempre il confine del mondo romano, mettendo fine ad una fase di continua e ininterrotta espansione durata per secoli e la sua edificazione va letta in parallelo con la contemporanea volontaria rinuncia alla Provincia di Mesopotamia, conquistata da Traiano solo pochi anni prima e considerata da Adriano di difficile sostenibilità economica e militare.
Siamo ai due estremi del mondo romano: la Scozia e l’Iraq. E osserviamo le scelte di un imperatore che – forse per la prima volta – accetta coscientemente che il mondo è più complesso di quanto non sembri, che forse Roma non può diventare padrona di tutto e che è necessario trovare una forma di convivenza e di dialogo con le altre popolazioni, con i Barbari. Il Vallo può quindi essere letto anche come una forma di autolimitazione della prepotenza e dell’ambizione di un Impero che accetta di rimanere contenuto nei propri confini naturali: il Reno, il Danubio, le terre fertili dell’Africa costiera nord-sahariana, il Caucaso. E – laddove i confini naturali mancano – erige delle fortificazioni a carattere permanente, fissa dei confini oggi e per sempre. Accetta la propria collocazione in un mondo multipolare.
Il muro di Trump, il filo spinato di Orban o le chiacchiere implausibili di Fedriga sulla necessità di un Vallo Salviniano a consolidare la Pax Sovranista non hanno la stessa visione equilibrata e lucida del Vallo di Adriano. Non rappresentano la volontà di consolidare un ordine internazionale multipolare, ma hanno una finalità molto più di breve periodo: costruire carriere politiche personali sulla base dello sfruttamento cinico delle paure, dell’ignoranza e dei pregiudizi di un elettorato sempre più eccitabile, sciocco e privo di punti di riferimento.
Non è il desiderio di garantire stabilità e sicurezza ai popoli che muove i demagoghi populisti ma, al contrario, il bisogno di mantenerne vive le paure, le angosce e l’odio più irrazionale verso il “diverso” e su queste pulsioni tutte negative rafforzare la propria posizione politica. Il grande storico dell’Impero Romano Edward Gibbon, nel tardo Settecento definiva l’età degli Antonini come “l’era più felice dell’Umanità”. Non credo che se dovesse oggi riflettere sul ghigno di Trump o di Salvini, sullo sguardo gelido di Orban o sul grigiore spettrale di Fedriga userebbe le stesse parole.
L’Età degli Antonini è irrimediabilmente perduta. Ora siamo al tempo della Crisi del III Secolo, con le scorribande dei militari illetterati insediati sul trono dalla soldataglia. E con una linea retta che unisce Massimino il Trace a Matteo il Truce.
Marco Cucchini