Il 2022 parte alla grande per alti dirigenti e manager di Stato. Nella finanziaria codicillo velenoso rimuove il tetto di 240000 euro per i loro compensi
Il 2022 sarà un anno pericoloso per la nostra democrazia. Non solo la pandemia e le tensioni sociali che si trascina dietro, come effetti collaterali alle problematiche sanitarie, ma una nomina del Capo dello Stato che potrebbe diventare enormemente divisiva in un Parlamento capace solo di ratifiche di idee non proprie e che si sveglia solo quando è il momento di infilare qualche riga di testo in legge per favorire questa o quella lobby. Ultimo episodio che non ha trovato praticamente spazio ed eco sulla stampa e le tv, la sterilizzazione del tetto economico per alti dirigenti e manager di Stato. Così a decorrere da ieri1 gennaio salta il limite retributivo, fissato in 240.000 euro annui, per i dipendenti pubblici. In sostanza la “paghetta” sarà rideterminata in relazione agli aumenti medi come calcolati dall’Istat. Così, con una pennellata di veleno per i cittadini e senza alcuna discussione, è stato inserito al comma 16 dell’articolo 17-bis, che disciplinerebbe l’accesso al Fondo indennizzo risparmiatori coinvolti nei crac bancari la rimozione del tetto ai maxi stipendi dei dirigenti pubblici, che era in vigore dal 2014 per contenere la spesa pubblica. Così lo stesso Governo Draghi che, in continuità con quanti l’hanno preceduto, fa le pulci ai cittadini più poveri con la richiesta di Isee per ogni prestazione sociale, sancisce un “libera tutti” per i dirigenti. In realtà il problema non è tanto economico, ma di principio, la norma infatti non comporterà, per ora, chissà quali aumenti smodati, ma è un segno politico chiaro oltre ad essere come il primo forellino in una diga. Del resto cosa ci si poteva aspettare da un capo di Governo con il pedigree da boiardo di stato come Draghi se non che salvaguardasse la sua categoria. Così si tornerà ad applicare l’aumento Istat ai dirigenti che percepiscono il tetto di 240.000 euro lavorando, come specificato dal comma 471 della legge n.147 del 27 dicembre 2013, a “carico delle finanze pubbliche in ragione di rapporti di lavoro subordinato o autonomo intercorrenti con le autorità amministrative indipendenti e con le pubbliche amministrazioni”. In buona sostanza si tratta di un aumento stimato dalla ragioneria di poco meno del 4% annuo per i vertici amministrativi dei grandi ministeri, delle magistrature, delle autorità indipendenti e per i cosiddetti “super consulenti”. Un ultimo tratto distintivo inserito alla chetichella visto che non era presente nelle bozze del testo, ed è comparso solo nella versione definitiva della Legge di Bilancio. Una Legge di Bilancio già generosa in altri capitoli per manager e per i lavoratori che godono di retribuzione medio-alte, a discapito dei ceti popolari. Se ne sarà discusso, si dirà, ed invece no, è stata approvata, come ormai da prassi consolidata, tramite voto di fiducia (ovvero senza discussione parlamentare) dal Senato alla vigilia di Natale ed poi alla Camera in maniera praticamente automatica. Altro che bicameralismo perfetto, siamo al monocameralismo imperfetto, non previsto dalla Costituzione che vorrebbe la centralità del parlamento e non la delega in bianco al “migliore” che forse lo è davvero, vista la qualità della politica, ma che comunque diventa ferita preoccupante. Intendiamoci probabilmente così come si erano messe le cose con una pandemia sconosciuta fuori controllo era necessario che le istituzioni reagissero. In discussione non è quindi la politica sanitaria e quella economica legata alla pandemia, anche se probabilmente non tutto è andato per il verso giusto, ma quella di maggior respiro. Passata l’ubriacatura del Pnrr sarà da capire dove si andrà, per ora l’idea che le Regioni gestiscano i progetti e i relativi danari fa rabbrividire perchè di “draghetti” regionali ne vediamo davvero pochi e se dovessimo giudicare la qualità della politica locale da quanto espresso nazionalmente, c’è poco da stare tranquilli.