Italia rovesciata, dalle elezioni abruzzesi alcuni segnali. Ma il vero problema del Paese resta la sinistra incapace di riscrivere la sua storia mentre il Pd si “calendalizza”
Ragionamenti in libertà, partendo dalle regionali in Abruzzo: Il verdetto è chiaro anche se non di effettiva valenza nazionale, indica solo semmai delle linee di tendenza interessanti. Vince il centrodestra e Marco Marsilio (Fratelli d’Italia), superando il 48 per cento dei voti, è il nuovo governatore della Regione che passa quindi dal centrosinistra al destra-centro. La Lega diventa infatti partito di maggioranza relativa mentre su Forza Italia con il suo risultato ad una cifra (9,1%) c’è poco da dire: qualcuno l’ha definito un utile (a Salvini) morto che cammina e che continua a rimanere aggrappato al suo unico, insostituibile, ma decadente leader, ma che copre quel centro orientato a destra ma che non digerisce i toni sguaiati del “comandante”. Altro dato incontrovertibile è che perde, anzi crolla il M5s (che passa dal 40% al 20% in un anno), anche se bisogna dire che la pur breve storia dei 5Stelle narra una palese difficoltà alle amministrative rispetto alle elezioni politiche. Ma il dato tendenziale è incontrovertibile, i grillini capitanati da Di Maio, Tonilli e dal redidivo Di Battista hanno dilapidato il loro capitale elettorale in pochi mesi e con ogni probabilità il dato è nazionale e non solo abruzzese. Non solo i grillini mostrano che l’emorragia di voti dal Pd ai 5Stelle sembra terminata ma che il Movimento, un tempo in grado di sottrarre voti a entrambi i poli tradizionali, ora perde consensi sia in direzione del centrodestra che del centrosinistra. Il perché è palese, sudditanza al furbo Matteo Salvini nelle politiche sull’immigrazione e sicurezza, incapacità di gestire e realizzare con ordine, chiarezza e semplicità le loro parole d’ordine programmatiche, reddito di cittadinanza in primis, percepito come una futura corsa ad ostacoli da videogioco. Non bastano una scenografia in stile televendita per convincere gli italiani che quanto promesso è stato fatto, solo quando il tintinnio della moneta verrà percepito nelle tasche di chi ha votato per avere qualcosa questo si convincerà di non essere stato preso per i fondelli. A questo aggiungiamo le varie Toninellate e la misura dell’inefficienza, vera o percepita, si materializza nella mancanza di fiducia da parte degli elettori che mai come in questi tempi sono “volatili”. Anche nel centrosinistra non c’è da stare allegri, anche se a voler vedere un bicchiere consolatorio mezzo pieno, possiamo dire che Giovanni Legnini è riuscito nell’impresa di frenare il tracollo annunciato raccogliendo un 31,34% analizzando il quale però, si scopre, che il Pd si è fermato all’11,13% mentre la lista di riferimento a Liberi e Uguali al 2,77 per cento. Bisogna dire che l’ulteriore 15 per cento e oltre viene da liste di coalizione civiche o legate a movimenti. Guardando questo in logiche antiche potrebbe sembrare un limite, (come vuole la narrazione dei commentatori di destra) ma osservando la questione da altra angolazione è forse l’unica vera novità a sinistra e che dovrebbe ancora di più far ragionare, sia le formazioni coinquiline in Leu ( Mdp e Sinistra Italiana) che vivono da separati in casa, sia lo stesso partito Democratico impegnato in un congresso senza fine il cui dibattito non è riuscito ad appassionare l’area di sinistra restando relegata alle vecchie logiche personali. Logiche nate dal sistema delle primarie all’americana e che sono in molti ormai a criticare. Questo congresso invece di una competizione fra leader-ini poteva essere un momento di riscatto ideologico, quello scatto d’orgoglio di una comunità politica per uscire dai postumi del trauma delle elezioni del 4 marzo 2018, quando non solo il Partito democratico (Pd), ma l’insieme delle forze di sinistra hanno toccato il loro punto più basso dal dopoguerra. Poteva e forse doveva essere il momento della verifica di ciò che non aveva funzionato e, contestualmente, fare proposte per ridare un rinnovato senso di marcia non solo ad un partito in profonda crisi ma ad un intero popolo, ad un area, che non ritrova più i valori di giustizia libertà ed equità sociale nelle politiche del centrosinistra degli ultimi anni. Per troppo tempo questi principi sono stati abbandonati o comunque relegati in subordine a politiche neo-liberiste non certo facilmente compatibili con la storia dei movimenti (quello sindacale in primis) e della stessa sinistra. Doveva insomma essere il momento per fare chiarezza sul ruolo ingombrante di Matteo Renzi e del suo giglio magico all’interno del partito. Invece non solo tutto questo non è ancora avvenuto ma addirittura, come una zeppa negli ingranaggi, sono proprio i renziani ad aver drogato il dibattito con la loro immutata presenza pubblica. Infatti, nonostante la debacle, la comunicazione pubblica del PD è ancora in mano alle stesse facce e stesse voci che per anni hanno rappresentato in pubblico, soprattutto nelle televisioni, le politiche dei governi Renzi e Gentiloni e la cui presenza oggi è plastica dimostrazione di come nulla sia ancora cambiato nel maggiore partito del centrosinistra italiano, dato che tutto è imperniato sulla difesa delle “buone” politiche fatte e colpevolizzando per di più gli elettori per non averle capite. Così anche se Renzi è troppo debole per immaginare di tornare ad esserne leader, è ancora convinto di avere del potere nel Pd, tanto almeno dal bloccarne e viziarne l’attività. Così, ad esempio, la presenza del renziano Giachetti, senza speranze di prevalere, è solo funzionale ad evitare che uno degli altri candidati, Zingaretti o Martina, possa prevalere con quel 51% che gli consentirebbe l’elezione diretta a segretario. Se non sarà così tutto finirà nelle alchimie di trattativa fra componenti ed allora il segretario sarà, come dire, condizionabile. Insomma il PD ha passato quasi un anno a leccarsi le ferite, ripiegato su un dibattito interno poco produttivo ed un immagine esterna in stile aventiniano o se preferite da partitella di calcio fra bambini nella quale uno dopo aver perso, sentendosi padrone del pallone, scappa via cercando di bucarlo e dicendo cornuto all’arbitro.
Il dramma è che l’analisi della sconfitta del 4 marzo è stata una finta, sbrigata pubblicamente in una mattinata all’hotel Ergife a Roma e anche nel dibattito interno è rimasta come territorio nel quale non inoltrarsi, come in un cimitero indiano per paura degli spiriti maligni. Così invece che una analisi seria si è lasciato spazio ad uno storytelling falso, ad una narrazione autoassolutoria aprendo così la strada anche ad un soggetto Come Carlo Calenda, che da neo iscritto al PD si era permesso di minacciare di stracciare la tessera dopo tre giorni da averla presa se non si operava secondo i suoi “desiderata” per poi adesso lanciare il suo general-generico Manifesto per riunire il popolo europeista e antisovranista, ma ponendo subito dei paletti. Un “manifesto” e dove si leggono perle di ovvietà come “laddove esistono alti tassi di conoscenza diffusa e un welfare efficace il populismo non attecchisce”. Se la comprensione del fenomeno del populismo è ferma a questi livelli, non vogliamo immaginare a che punto sia l’analisi della società italiana e del suo comportamento politico complessivo. O meglio, possiamo immaginarlo, dato che due giorni fa lo stesso Calenda ha dimostrato la scarsa attitudine a maneggiare il sentiment di sinistra con una lettera al Corriere della Sera e senza probabilmente rendersi conto di porre delle condizioni ricattatorie al partito di cui fa parte e nel quale, se avesse avuto coraggio, poteva candidarsi come segretario. Scrive Calenda: “Una parte dell’apparato del Pd (molto più dei candidati alle primarie), pensa che la proposta di Siamo-Europei possa essere strumentale per una “scalata ostile” al partito. Voglio essere chiaro: è del tutto evidente che spetta a chi sarà eletto segretario decidere la linea del Partito democratico. Ma è doveroso chiarire, prima del 3 marzo, se questa linea coinciderà con quella indicata dal manifesto”. Insomma per Calenda o si fa come lui dice o niente. “Una risposta pubblica – continua Calenda – è dovuta alle migliaia di firmatari del manifesto, molti dei quali peraltro militanti e amministratori del Pd. E se l’ostacolo alla costruzione della lista unitaria è la mia presenza nelle liste come front runner e i connessi fantascientifici rischi di “scalata ostile” al partito – fa sapere -, mi dichiaro da subito disponibile a cedere il passo a Paolo Gentiloni che, come ho spesso detto pubblicamente, ha più esperienza, seguito e popolarità di me. Non avrei alcun problema a fare da gregario a Paolo in una sfida comune ai sovranisti”. – Insomma Calenda detta la linea e anche chi dovrebbe portarla avanti. A questo punto le primarie del PD potrebbero davvero essere inutili. Ed è quasi così, visto che è arrivato l’annuncio del Presidente del Pd Matteo Orfini: “Domani sottoscriverò a nome del Pd il manifesto ‘Siamo europei’ promosso da Carlo Calenda. Ho condiviso questa scelta con Nicola Zingaretti, Maurizio Martina e Roberto Giachetti: il Pd dunque ne assume i contenuti” spiega Orfini, attuale reggente del partito. “Iniziamo da qui – aggiunge – per lanciare la sfida ai populisti. Nei prossimi giorni incontrerò i segretari regionali per avviare il percorso e convocherò un tavolo con i nostri parlamentari europei e italiani per elaborare il contributo programmatico con il quale il Pd affronterà la sfida”.