Aumenti dei prezzi alimentari ingiustificati. In azione gli “speculatori della fame”
Non servono sofisticati sondaggi per certificare l’aumento dei prezzi, basta l’abitudine a fare la spesa e fare un giretto nei mercati e supermercati, o chiedere a chi la spesa la fa tutti i giorni, per vedere che l’inflazione, per quanto riguarda gli alimentari è ben oltre quanto certificato dall’Istat. Sono quindi giustificate le preoccupazioni e le aspettative negative dei cittadini in merito all’aumento generale del costo della vita. La maggioranza degli italiani quindi si aspetta un aumento dei prezzi nel corso del 2022, soprattutto per quanto riguarda la spesa alimentare e il costo delle utenze come luce e gas. Molti affermano di essere preoccupati per la propria capacità di fronteggiare gli aumenti. Ma se l’opinione dei singoli non basta, ecco che a certificare la situazione ci sono anche i ricercatori, che dopo aver registrato un aumento dei prezzi dei generi alimentari nel 2021 del +31%, prevedono una ulteriore crescita dei prezzi, fino ad un +23%, nel 2022, a causa dell’aumento dei costi delle materie prime come il carburante, l’elettricità e i fertilizzanti. Ma la domanda che bisognerebbe farsi è cosa nasconde il prezzo del nostro cibo. Questione fondamentale per capire la formazione delle etichette allo scaffale e le speculazioni che vi si nascondono. Occorre partire dalla remunerazione dei produttori, dalla quota della distribuzione e del trasporto. Ma ovviamente non è sollo questo. Se qualcuno pensa ancora che i produttori siano coloro che maggiormente ci guadagnano, si sbaglia. Analizzando se pur con molte semplificazioni, la composizione dei prezzi dei prodotti soltanto alimentari si scoprono molte storture sulle quali dovrebbero essere le istituzioni a vigilare, perchè vabbè il libero mercato, ma libertà di truffa è altra cosa. In ogni caso una soluzione potrebbe essere quella di acquistare prodotti il più direttamente possibile dal produttore o dal fabbricante, e privilegiare i marchi del commercio equo e solidale. Questo permette di garantire una remunerazione più equa ai produttori, salvo alcune distorsioni perchè, in ogni settore ci sono furbetti e profittatori. L’acquisto diretto da un produttore implica un prezzo fissato in base ai costi di produzione (tempo impiegato, investimenti necessari, oneri inerenti alla struttura, tasse, contributi ecc), e ovviamente un margine che permetta al produttore di vivere del suo lavoro. In teoria, quindi, il prezzo di un chilo di prodotto dovrebbe essere calcolato come segue: costi relativi alla coltura (sementi, materiali, fertilizzanti…) + valorizzazione del tempo dedicato al lavoro + margine teorico di redditività dell’azienda agricola, rispetto ai costi complessivi. Il risultato ottenuto andrebbe poi diviso per la quantità complessiva di questa produzione, da riportare poi al chilo. Questa però è solo teoria, perchè in realtà la maggior parte dei produttori fissa i propri prezzi di base su riferimenti internazionali, nazionali o regionali di “mercato”. Fin dall’inizio, quindi, il prezzo è spesso distorto, perché non è adeguato alle esigenze della produzione, ma si basa sul favore del consumatore, spesso orientato dal marketing selvaggio e sul riferimento ai prezzi praticati, quest’ultimo basato sui parametri dei metodi di produzione “industriali” dove la qualità è un optional, a volte diversi e lontani da quelli reali e fondandosi più su una logica speculativa che sulla realtà della produzione. Nonostante questa discrepanza, la vendita diretta permette comunque al produttore di vivere meglio grazie a una remunerazione più equa e soprattutto ai minori ricatti che subisce dagli intermediari della grande distribuzione. Grande distribuzione che ragiona in termini completamente slegati dalla “terra”. Il prezzo d’acquisto dei prodotti è imposto (il più delle volte) al produttore in funzione del prezzo di una borsa nazionale o internazionale. A questo basso prezzo, frutto di un accordo tra le multinazionali che puntano al massimo margine possibile. Se il prezzo al consumatore per qualsiasi motivo deve essere ridotto, allora è meglio operare tagli salariali o abbassare il prezzo d’acquisto iniziale, invece di ridurre il margine o i dividendi che, in un mondo di mercato liberale, devono continuamente aumentare. Insomma i margini di guadagno non possono scendere, quindi il prezzo sale. Si noti che è sui prodotti biologici che i supermercati guadagnano di più (fino all’80% e oltre, secondo uno studio francese di UFC Que choisir). Inoltre, sono tornati gli “speculatori della fame”. Speculatori finanziari che alimentano questa esplosione dei prezzi per il solo fine di ricavare extra profitti. Una pratica intollerabile che colpisce direttamente il diritto al cibo, denuncia Foodwatch, Ong che lotta da oltre dieci anni contro la speculazione alimentare e spinge per l’attuazione di norme europee sui prezzi più severe. Prezzi che sono aumentati a livello mondiale del 30% in più rispetto a un anno fa, secondo la FAO. Se la guerra in Ucraina e i timori di penuria che essa provoca sono spesso citati per spiegare il fenomeno, Foodwatch sta riportando l’attenzione su un fattore spesso dimenticato: la speculazione alimentare. Il fenomeno è purtroppo ben presente. Con la guerra in Ucraina, miliardi di euro e dollari sono confluiti in fondi che speculano sul cibo. Questi investitori acquistano in previsione di tensioni di mercato e di un rialzo dei prezzi. Il loro obiettivo? Rivendere al più caro possibile e per farlo non si fanno scrupolo di bloccare la circolazione dei prodotti. Questa smania di profitto alimenta poi un circolo vizioso: amplifica l’aumento dei prezzi e le tensioni di rifornimento. A perderci sono non solo i piccoli produttori, come abbiamo visto vessati e ricattati, ma soprattutto i consumatori e le consumatrici. Sarebbe auspicabile che nei programmi elettorali le forze politiche facessero proposte concrete per bloccare le speculazioni. Cero sostegni e bonus ai cittadini sono utili, ma diventano, alla fine del giro, ulteriori prebende per gli speculatori.