Caso PFAS in Veneto, aggiornamenti dagli USA e scelte Ue
Il “caso Pfas” in Veneto è scoppiato in Veneto nel 2013 a causa o meglio per merito di una ricerca sperimentale condotta dal CNR e dal Ministero dell’Ambiente su potenziali inquinanti “emergenti”. Le analisi effettuate nel bacino del Po e nei principali fiumi italiani segnalarono la presenza di sostanze perfluoro alchiliche (PFAS) in acque sotterranee, superficiali e potabili. Arpa Veneto si attivò da subito nella regione, in particolare nella provincia di Vicenza dove era stata individuata dall’Agenzia una significativa area di contaminazione. L’intervento tempestivo permise alle autorità regionali di mettere subito in sicurezza l’acqua potabile della zona interessata, tramite l’utilizzo di filtri a carboni attivi. Nonostante gli sforzi per contenere il fenomeno, ammonta a 136,8 milioni di euro il danno ambientale causato in tre province della regione Veneto. La cifra è stata quantificata da Ispra e resa nota dal ministro Costa nel corso di un’audizione in Commissione Ecomafie il 31 gennaio scorso. Il danno è stato provocato nelle province di Verona, Padova e soprattutto Vicenza dove ha sede la Miteni spa l’azienda che ha sversato Pfoa e Pfas, composti impermeabilizzanti utilizzati per le padelle antiaderenti e i giacconi antipioggia, per oltre quarant’anni. Non si escludono effetti anche nella zona di Rovigo, dove sono stati registrati episodi di contaminazione, ma per ora la provincia non è stata considerata.
I PFAS sono composti che, a partire dagli anni Cinquanta, sono stati utilizzati in tutto il mondo per rendere resistenti ai grassi e all’acqua i tessuti, la carta, i rivestimenti per contenitori di alimenti, detergenti per la casa. Nel 2006 l’Unione Europea ha introdotto restrizioni all’uso del PFOS, una delle molecole più diffuse tra i PFAS, da applicarsi a cura degli Stati membri. Ma il problema PFAS non tocca solo il nostro Paese dove fenomeni di inquinamento non riguardano solo il Veneto. In una recente audizione davanti alle Commissioni emergenza e sicurezza interna del Senato USA, Linda Birnbaum, direttrice del National Institute of Environmental Health Sciences (NIEHS) degli Stati Uniti, ha fatto il punto sugli studi condotti negli ultimi 30 anni da una delle agenzie federali che più attivamente si è occupata di ricerche scientifiche legate all’inquinamento da PFAS. Ne sono scaturiti studi sui possibili effetti sulla salute umana e in particolare sui bambini : disturbi neurocomportamentali e cognitivi in età pediatrica, disfunzioni del sistema immunitario, interferenze col sistema endocrino (obesità, infertilità e dismetabolismo dei lipidi) e casi di cancro.
Intanto la Commissione europea ha chiesto all’EFSA, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, una valutazione scientifica sui rischi per la salute umana legati alla presenza di PFAS negli alimenti. L’Autorità ha dunque rilasciato un primo parere scientifico riguardante i principali PFAS, noti come perfluorottano sulfonato (PFOS) e acido perfluoroottanoico (PFOA), due sostanze chimiche che persistono nell’ambiente a causa del loro lento degrado e che possono inoltre accumularsi nell’organismo umano impiegando molti anni prima di essere eliminate.
Le conclusioni a cui è giunta l’EFSA sono provvisorie e verranno riviste durante il completamento della seconda parte dello studio, che si concentrerà sulla valutazione dei rimanenti PFAS e sui possibili rischi per la salute umana provenienti da queste sostanze.
L’Autorità sta inoltre sviluppando, al momento, dei quadri metodologi per valutare l’esposizione congiunta a più sostanze chimiche: le conclusioni di questo quadro risulteranno utili ed importanti anche per lo studio sui PFAS che sono spesso presenti come miscele nella catena alimentare. L’EFSA ha già sviluppato alcuni approcci per valutare l’esposizione combinata dell’uomo a più pesticidi e contaminanti; al momento sta approfondendo nuovi metodi e strumenti per armonizzare le modalità con cui vengono valutati i rischi per l’uomo e l’ambiente connessi a sostanze chimiche multiple nella catena alimentare, ovvero le “miscele chimiche” e i loro “effetti cocktail”.
EFSA, sulla base dei dati a disposizione, ha indicato un livello di assunzione settimanale tollerabile: 13 ng/kg peso corporeo per PFOS e 6 ng/kg peso corporeo per PFOA. Per entrambi i composti, dai dati di contaminazione degli alimenti e dai database dei consumi alimentari, risulta che l’esposizione di una parte considerevole della popolazione supera le dosi proposte.
Gli alimenti che determinano i maggiori apporti sarebbero, secondo questa prima valutazione: “Pesce e altri frutti di mare”, “Carne e prodotti a base di carne” e “Uova e prodotti a base di uova” per PFOS e “Latte e prodotti caseari”, “Acqua potabile” e “Pesce e altri frutti di mare” per PFOA.
Le emivite, cioè il tempo richiesto per ridurre del 50% la biodisponibilità di una sostanza sono stimate per PFOS e PFOA rispettivamente di 5 anni e 2-4 anni.
Sono stati inoltre identificati alcuni effetti critici: per entrambe le sostanze l’aumento del colesterolo totale nel sangue negli adulti e per PFAS anche la diminuzione della risposta anticorpale alla vaccinazione nei bambini.
Ricordiamo che la produzione, l’immissione sul mercato e l’uso dei PFOS sono disciplinati dalla legislazione europea sugli inquinanti organici persistenti (Regolamento (CE) 850/2004). Il 4 luglio 2020 entreranno in vigore restrizioni alla fabbricazione e all’immissione sul mercato dei PFOA, dopo le valutazioni scientifiche effettuate dall’Agenzia europea per le sostanze chimiche (ECHA).