Da Trump a Biden: goodbye, Afghanistan
Nel 2009, al suo primo anno di vicepresidente, Joe Biden scrisse a mano un memorandum al presidente Barack Obama, nel quale asseriva l’importanza di ritirare le truppe dall’Afghanistan. Quest’idea era maturata da una visita di Biden all’Afghanistan durante la quale capì che si era fatto tutto quel che si poteva in quella parte del mondo. Obama e Biden ebbero ottimi rapporti e il 44esimo presidente considerò il suo vice come partner di fiducia nelle sue decisioni ma nel caso del ritiro delle truppe non seguì il consiglio. Ora, da presidente, Biden compie ciò che si era dovuto fare quando lui era vicepresidente.
Biden ha recentemente spiegato che entro l’undici settembre dell’anno in corso, anniversario dell’attacco alle Torri Gemelle, le truppe americane faranno ritorno a casa. L’attuale inquilino della Casa Bianca ha chiarito che la guerra in Afghanistan, durata 20 anni, è stata la più lunga nella storia americana. Continuare con la stessa strategia sperando in diversi risultati non è ragionevole. Biden ha reiterato che lui è il quarto presidente americano, due democratici e due repubblicani, che hanno mantenuto truppe in Afghanistan e non intende “passare questa responsabilità” a un quinto presidente. È ora di riportare le truppe a casa, ha concluso Biden. Con l’eliminazione di Osama bin Laden, portata a termine dalle Navy Seals americane nel 2011 in Pakistan dove il leader di Al Qaeda si era rifugiato, gli obiettivi di fermare futuri attacchi agli Stati Uniti sono stati raggiunti. Quindi è tempo di porre fine all’infinita guerra.
Va ricordato che la guerra in Afghanistan iniziò subito dopo gli attacchi dell’undici settembre 2011 e mirava a eliminare le basi terroristiche di Al Qaeda che si erano stabilite nell’Afghanistan. Si era poi cercato di stabilire un governo capace di mantenere la pace, impedendo ad altri gruppi terroristici di stabilirsi nella nazione del Sudest asiatico. Gli obiettivi si erano però ampliati cercando di fare dell’Afghanistan un paese democratico stabile. I successi, però, sono stati limitati: l’Afghanistan rimane un paese poverissimo la cui risorsa principale consiste di narcotici estratti dalla coltivazione dell’oppio. Nonostante le elezioni e il governo eletto dai cittadini i discordi sono continuati fra i diversi gruppi etnici—Pashtun 38%, Tagiki 25%, Hazara e Uzbechi 9%, separati da differenze religiose e linguistiche. Il governo di Kabul non è mai riuscito, anche con l’assistenza militare americana e di alleati, a stabilire il controllo in tutto il paese. In parte ciò si deve al fatto che fuori di Kabul il governo centrale è visto come straniero e quindi non è difficile per i talebani trovare sostenitori che li assistano nella loro lotta per il controllo. Gli interessi geopolitici di paesi vicini come il Pakistan e l’Iran, che continuano a supportare alcuni dei diversi gruppi etnici ci mettono del loro, rendendo difficile al governo centrale di Kabul di mantenere il controllo del paese. I talebani, che rappresentano i Pashtun, il gruppo etnico più grande, riuscirono a governare il Paese fra il 1996 e il 2001 con una politica estremista. Tolsero tutti i diritti ai cittadini imponendo una forma di estremo radicalismo islamico, esibendo grande riluttanza a condividere il potere con gli altri gruppi etnici. Imposero la shari’a (legge islamica) che includeva anche l’amputazione di una o entrambe le mani per i reati di furto e la lapidazione degli adulteri. Il trattamento delle donne fu abominevole.
Il governo democratico però non riuscì a unificare il paese e i talebani continuarono a dominare specialmente nelle zone rurali. Si crede che una volta partiti gli americani e i loro alleati il governo centrale di Kabul non potrà resistere e verrà sopraffatto e si farà ritorno al tipo di governo estremista del passato talebano. Ecco perché alcuni hanno auspicato giustamente che le forze americane dovrebbero essere rimpiazzate da truppe delle Nazioni Unite per mantenere la pace e dare più tempo alle diverse etnie di raggiungere accordi stabilendo compromessi.
La decisione di Biden di riportare le truppe a casa era già nota ma prima di annunciarla Biden si è consultato con i vertici delle forze militari americane. Sembrerebbe che i generali fossero contrari ma alla fine il presidente è il commander-in-chief e avranno poca scelta eccetto di metterla in pratica. Ovviamente le reazioni dei leader democratici all’annuncio del ritiro delle truppe sono stata positive specialmente dall’ala sinistra del partito. Da parte repubblicana si è avuta una spaccatura. Mitch McConnell, del Kentucky e leader della minoranza del GOP al Senato, ha classificato il ritiro come un “grave errore”. I senatori Rand Paul (Kentucky) e Ted Cruz (Texas) hanno approvato. Ha approvato anche Mike Pompeo, segretario di Stato durante l’amministrazione di Donald Trump, il quale non potrà fare altro che sorridere poiché pensava di fare ritirare le truppe solo pochi mesi prima nel mese di maggio.
Al di là della possibile insicurezza in Afghanistan dopo il ritiro delle truppe americane c’è anche da considerare le migliaia di afgani che hanno lavorato a fianco degli americani come interpreti, autisti, cuochi, ecc. i quali potrebbero divenire bersagli dei talebani considerandoli “traditori”. Il governo americano ha il dovere di offrire loro asilo politico ma di questi giorni Biden, alle prese con i migranti alla frontiera col Messico, sembrerebbe poco propenso a farlo.
Il ritiro delle truppe dall’Afghanistan ci conferma l’idea che l’America, nonostante tutte le sue risorse, non può creare nazioni democratiche dove non c’è una tradizione locale per questo tipo di forma di governo. La democrazia è un sistema fragile come ci hanno rivelato gli eventi di insurrezione del 6 gennaio scorso a Washington. Biden lo capisce. Il ritiro delle forze dall’Afghanistan dovrebbe anche condurre a una rivalutazione delle truppe americane sparse per il mondo. Più della metà del bilancio americano va per la difesa e con le necessità di investire nell’interno del Paese sarebbe una buona soluzione di ridurre la corsa alle armi e investire nei bisogni degli americani.
Domenico Maceri
PhD, è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California. Alcuni dei suoi articoli hanno vinto premi della National Association of Hispanic Publications.