Hospice di Udine, torna il delirio. L’allarme di personale e famiglie potrebbe essere il viatico atteso da qualcuno per tornare all’esternalizzazione del servizio

Ogni tanto nel capoluogo friulano tornano  fuori  fantasmi del passato, così è per l’hospice. I posti di “fine vita” che ogni città civile dovrebbe offrire come presidio di umanità.  Un tormentone lungo lustri che, se non si trattasse del racconto di una delle situazioni più delicate e dolorose della sanità, quella del dolore infinto della fine di una  vita, potrebbe sembrare farsesca. Ma in realtà è il business  a essere il reale motore in passato come probabilmente  oggi. Partiamo quindi da questo 2021  e dalle voci sempre più insistenti che raccontano di una nuova possibile esternizzazione del servizio. Per sponsorizzare l’ipotesi sembra ci sia qualcuno  che non si fa scrupolo a spingere verso una gestione approssimativa o meglio, a lasciare che la situazione  vada alla deriva. Farlo è semplice, basta mettere a capo di una struttura personale qualificato solo sulla carta, ma incapace nella realtà, ed il gioco e fatto. Strategia perniciosa volontaria?  Difficile averne certezza nel caso specifico ma del resto la tecnica manageriale consolidata in tutti i settori racconta che basta lasciare che una gestione diventi poco efficiente ed il gioco è fatto, si ha mano libera per proporre anche l’improponibile. Cosa semplice essendo l’hospice per sua natura una realtà sanitaria delicatissima, non tanto dal punto di vista strettamente medico, perchè nell’hospice non si salvano vite, ma dal punto di vista psicologico e del rispetto della persona e dei suoi affetti. Impegno che i realtà non sembra esserci attualmente da parte di tutti, almeno secondo quanto emerge da una testimonianza crudissima riportata il 16 marzo scorso dal quotidiano Il Gazzettino. Una testimonianza raccolta dall’ottima collega Lisa Zancaner che fra l’altro scrive: “ E’ un grido di dolore quello che arriva dall’hospice di Udine. La pandemia, soprattutto nella seconda e terza ondata sembra aver fatto passare in secondo piano tutto il resto anche gli altri malati. Ma c’è una struttura all’interno del Santa Maria della misericordia dove l’umanità dovrebbe essere uno degli obiettivi, tanto di giorno quanto di notte. Da quando è scoppiato il covid, scrive ancora Zancaner, son diverse le voci che si rincorrono fra operatori e familiari di pazienti sulla gestione di una struttura quanto mai delicata perchè qui arrivano i malati terminali e i familiari fanno ingresso in queste stanze per dare l’ultimo saluto ai propri cari. Così non può passare inosservato il grido di dolore di un dipendente che ricopre un ruolo infermieristico AsuFc che dalle sue parole fa trasparire frustrazione e rammarico: “Quando arrivo all’hospice per prestare servizio- racconta uscendo da un turno che sembra un incubo- mi coglie una parola: delirio.” Una frase forte che fa capire l’amarezza di chi ci mette tutto l’impegno in una struttura destinata al fine vita, ma dove le cose non funzionano dove dovrebbero, e c’è anche paura a dirlo… “ Mi sono trovato, prosegue ancora la testimonianza dell’operatore, a dover sostenere colloqui con i familiari senza la presenza di un medico che mi desse supporto adeguato”. Fin qui la denuncia, un j’accuse che già da solo vorrebbe degli approfondimenti dato che è chiaro che, giudicando dalla testimonianza sulla cui veridicità non abbiamo dubbi,  c’è chi in quella struttura sembra scarichi il proprio dovere di medico sul personale infermieristico che non è certo demandato a comunicare ai familiari e magari constatare la morte di un paziente.
Una situazione che se fosse confermata sarebbe di gravità estrema alla quale una risposta solo di “solidarietà” è arrivata dall’Ordine delle professioni infermieristiche (Opi) mentre non risulta che dalla direzione AsuFc si sia mosso qualcosa di ufficiale, anche se la curiosità di conoscere il nome del coraggioso “delatore” pare  rimasta,  per fortuna, ancora insoddisfatta. Ci si sarebbe aspettati che una denuncia di tale gravità vedesse interventi concreti ma così non ci risulta sia stato. Questo avvalora ancora di più la tesi che l’hospice sia visto come una rogna da alcuni e una lucrosa opportunità da altri. Ricordiamone allora la storia tormentata partendo dal 2009 quando è nato, collocato in una casa di riposo dell’hinterland udinese (Martignacco) tramite una convenzione che è costata all’ASL 1,5 milioni di euro di affitto per anno (vuoto per pieno) per 15 posti letto, ma in realtà con un tasso medio di occupazione del 70% che rendeva il business appetibile.

Il passato

Ma scaviamo nella nostra memoria storica (consapevoli che incorreremo in qualche imprecisione) ed esemplifichiamo la narrazione di una vicenda lunga oltre vent’anni, dicendo in via preliminare che quella storia è foriera di irregolarità e sprechi sui quali  non c’è stata alcuna inchiesta e neppure un reale giudizio politico. Ovviamente questo non vuol dire che fosse tutto regolare, ma che la sonnacchiosa Procura di Udine si è guardata bene da mettere il dito in quello che poteva trasformarsi in un vespaio, mentre i partiti non amano spartirsi responsabilità quando queste sono comuni.

La Storia
La storia inizia quindi  nel secolo scorso, poco più di vent’anni fa, a seguito dell’approvazione della Legge 39 del 1999 voluta dall’allora ministro alla sanità Rosi Bindi, che prevedeva l’adozione di un programma nazionale per la realizzazione in ciascuna regione e provincia autonoma di un Hospice per il fine vita. Allora la Fondazione Morpurgo Hofmann assieme all’Azienda Sanitaria Udinese, espressero la volontà di realizzarne uno a Udine, nella ex clinica Santi di via Monte Grappa (ora demolita) al tempo proprietà della Fondazione stessa. Quello che serviva, erano 15 posti letto. Nulla di più. Ma, in breve, la smania di grandezza “pubblica” sedusse gli animi e si pensò a una struttura più ambiziosa, che ospitasse 15 posti per il fine vita e 58 per la Residenza Sanitaria Assistenziale (Rsa).

Ecco che nel 2000, dopo il concorso “Hospice chiavi in mano”, fu approvato un primo progetto, quello degli architetti Sello e D’Odorico; opera che, nel 2003, forse per capriccio dell’Azienda Sanitaria, subì delle varianti: due piani per la Rsa e uno solo uno per il fine vita. Allora la spesa per l’opera si quantificò in 14 milioni. Il soldi erano troppi e si mendicò perfino qualche finanziamento privato. Nei forzieri della Fondazione, infatti, c’erano soltanto i 2 milioni erogati da Roma con un decreto ministeriale, ma con l’obbligo di utilizzarli entro tre anni. Nel maggio del 2005 si fece avanti una sconosciuta associazione romana, “Anni Verdi”, saltata fuori dal cilindro dell’allora presidente della Fondazione, Gianluigi Gigli, ma che presto si defilò. Nel frattempo l’azienda sanitaria Medio Friuli venne autorizzata a stipulare un mutuo fino a 7 milioni con la Regione, per non meno di 15 anni. Soldi virtuali, in ogni caso, perché, a quanto risulta, il mutuo non fu mai acceso. Il tempo passò infruttuosamente attraverso scontri e resistenze; all’interno della Fondazione, infatti, per usare un eufemismo, la concordia non regnava sovrana. Ecco che nel 2007, dopo un’inevitabile scissione all’interno della Morpurgo, nacque la “Fondazione Onlus Hospice Rsa Morpurgo Hofmann, Azienda Sanitaria Medio Friuli”. A questo punto un accordo prevedeva che la vecchia Fondazione lasciasse in eredità alla “figlia” il terreno di via Monte Grappa, oltre al progetto realizzativo e a un conferimento di liquidità, pari al 36% del valore complessivo della donazione. L’Aas Medio Friuli, invece, avrebbe contribuito per il 63% del totale con il mutuo “triestino”.

A questo punto, Gigli fece saltar fuori dal cilindro un nuovo coniglio: l’Ater. A novembre del 2007, infatti, senza dare spiegazioni, il presidente della Fondazione liquidò gli architetti Sello &co e consegnò all’Azienda Territoriale per l’Edilizia Residenziale l’incarico di un nuovo progetto, sempre alla Santi. Disegno che, a ben guardare, secondo le malelingue sembrava scopiazzato dal precedente. Nel 2010 entrò nella Fondazione, con gran clamore, anche il Comune di Udine con un conferimento carico di potenziale: l’ex caserma Piave, con la soluzione ad una serie di problematiche urbanistiche riscontrate in via Monte Grappa. L’offerta si presentò allettante perché a suon di progetti e perdite di tempo, la Fondazione nel frattempo si trovò con le tasche bucate. Il regalo del Comune, inoltre, consentiva la vendita (che a ben guardare sembrò una svendita) della clinica Santi, nella speranza di raggranellare un ulteriore gruzzolo.
Ecco allora che per la Piave si concepì un nuovo progettone, sempre firmato Ater. Ma l’opera risultò proibitiva, anche per via di spese aggiuntive per la bonifica del suolo. Ancora nulla di fatto, con un ritardo di 9 anni sulla fiducia e il finanziamento di Roma. Finanziamento che, ricordiamo, fu assegnato a un progetto ancora inesistente. Fin dal primo momento, dunque, fu chiaro che non aveva mai trovato soluzione immediata il vero problema: quello di fornire un servizio adeguato ai malati. Per questo, come spesso accade anche per altri servizi, si decise di ricorrere, con regolare gara d’appalto, ai privati. Si presero così in locazione 15 posti letto alla Zaffiro di Martignacco, (poi trasferiti al Gervasutta e ridotti a 8) con un conseguente e aggiuntivo dispendio da parte dell’Azienda Sanitaria. Ma almeno, si disse allora, si aveva il servizio dal momento che il “pubblico”, per proprie inefficienze, non era stato in grado di pensare ai malati. Sì perché alla fine della fiera, in questa triste vicenda il vero spreco di denaro, almeno allora, non fu nei fondi spesi per l’assistenza privata, ma nell’incapacità della struttura sanitaria pubblica di rendersi efficiente e concorrenziale o, come nel nostro caso, nella pretesa di dotarsi di velleitarie strutture faraoniche che, alla fine, rischiano di non farsi, o di restare cattedrali nel deserto perché non ci sono più soldi sufficienti, facendo allora sì raddoppiare le spese e determinando sprechi milionari.

Detto fatto, e passano ancora gli anni. Siamo nel febbraio 2014 la Regione torna sui suoi passi e la disponibilità di concedere un mutuo per l’hospice va in fumo. L’ufficialità arriva nel 2015 quando con la manovra di Bilancio approvata dalla Regione nel dicembre di quell’anno, viene abrogata ufficialmente la norma 2006 che concedeva all’Azienda Sanitaria il prestito immobiliare. La situazione è sempre più critica, perché i soldi a disposizione sono insufficienti anche per realizzare 15 posti per i malati terminali. E’ il tracollo. La Regione, rivolgendosi all’allora presidente della Fondazione Onlus, Colle, argomentò più o meno così: “noi non ti concediamo mutui, arrangiati come puoi, fermo restando che ti restano i due milioni concessi dallo Stato”. Ma cosa fare con soli due milioni? O meglio, due milioni più un milione e rotti guadagnato dalla vendita della Santi? Alla Piave, che necessita di bonifica, praticamente con quei soldi non si può realizzare neanche un chiosco per le bibite. A questo punto il presidente Colle abdicò. Al suo posto venne eletta Manuela Quaranta Špacapan, un’elezione che, per come la vediamo noi, servì al solo scopo di salvare le apparenze. Insomma: il miraggio Hospice, per ragioni politiche in odor di elezioni 2018, doveva rimanere ancora in piedi. Ma qualcuno sottovalutò l’integrità del neo presidente. Il clima, in Fondazione, si fece subito teso. Il primo, e forse l’unico incarico urgente assegnato alla Quaranta Špacapan, fu quello di redigere il nuovo statuto della Fondazione, e questo in ottemperanza alla legge del 2012 sulla spending review che prevede una riduzione dei membri del consiglio. “Ma che senso ha redigere un nuovo statuto, se non esiste più neanche una reale missione della Fondazione?” questo dev’essere stato il quesito etico che si è posta la neo presidente. La risposta arrivata da Trieste sul futuro della sua istituzione fu disarmante e suonò più o meno così: “fate un Hospice a 15 letti con quello che avete. Perché da noi, lo ribadiamo, non arriverà un soldo”. Risposta pilatesca quindi.   Dopo vari tira e molla la Regione decide comunque di investire l’Azienda Sanitaria del gravoso compito: fare l’Hospice con i soldi statali. Di conseguenza, l’Azienda esce dalla Fondazione Onlus che, privata definitivamente della sua funzione vitale, obbliga il presidente Quaranta Špacapan ha presentare le sue dimissioni dichiarando. «Me ne vado sollevata finalmente è chiaro chi dovrà pensare ai malati. Mi auguro che l’Azienda 4 “Friuli Centrale” faccia propria in toto la responsabilità di dare una risposta concreta e rapida a chi, nella condizione di fragilità globale imposta dalla malattia, ha diritto ora, e non in un tempo futuro incerto, a preservare la propria dignità di uomo all’ultimo attimo di vita terrena». Auspicio quello della Špacapan che ora, nel 2021 potrebbe venir meno. Infatti anche se nel 2013 l’hospice veniva trasferito nell’ospedale pubblico di riabilitazione Gervasutta in Udine città con 12 posti letto la tormentata storia sembra essere ben lungi da avere conclusione.

L’epilogo

Nel 2019 avviene ulteriore trasferimento nell’ospedale civile Santa Maria della Misericordia di Udine con 8 posti letto con una pomposa inaugurazione da parte dell’attuale assessore alla Salute Riccardo Riccardi che oggi sembra voler emulare i fasti del passato che ricordiamolo, furono assolutamente bipartisan. Ma ovviamente lui che virtualmente ha ancora il quadro di Formigoni nel suo ufficio, vede probabilmente una sola soluzione, quando un servizio funziona male, diamolo ai privati, perchè “privato” e bello. E poi tutto sommato offrire al mercato 8 posti fine vita potrebbe tornare ad essere un affare per qualche amico.

Fabio Folisi