Il centralismo e la sovranità nazionale non fanno bene al clima
La questione del cambiamento climatico non è ancora pienamente compresa non solo nel significato della sua dimensione, ma soprattutto nelle domande che pone rispetto alle attuali idee prevalenti nel campo dell’economia e delle organizzazioni istituzionali.
La lotta al riscaldamento globale e la stessa necessità di organizzare forme di adattamento a quanto ci aspetta mettono in discussione due capisaldi dell’attuale modello di funzionamento del mondo. Si tratta della convinzione che ogni miglioramento della condizione umana passa attraverso la “crescita” dell’economia misurata in termini di scambio di prodotti e servizi, e che l’unica struttura istituzionale di organizzazioni politica delle società umane debba prevedersi nell’esistenza di Stati, quasi sempre anche concepiti come Stati Nazione.
E’ evidente che il tentativo, sia pure ormai tardo, di mitigare l’aumento del riscaldamento della Terra con misure di riduzione di CO2 determina profonde modifiche delle politiche che oggi accompagnano l’economia globale. Tali misure sconvolgono le “economie nazionali” e devono essere prese sul piano globale per essere poi attuate nei territori secondo le loro caratteristiche geografiche, sociali ed economiche.
Nella situazione italiana l’efficacia degli interventi è legata proprio alla capacità locale di interpretarli e non ad un comando statale che di fatto non dovrebbe fare altro che prendere atto degli imperativi provenienti dalle decisioni generali.
Lo stato italiano ha più volte elaborato piani strategici di mitigazione sulla base delle indicazioni provenienti dalle Conferenza sul clima senza mai produrre alcun risultato sostanziale proprio perché il meccanismo top-down non ha funzionato. Anche perché interessi consolidati al livello statale non sono mancati nel vanificare l’avvio di politiche concrete. La vicenda delle trivelle sta lì a dimostrarlo.
La “green e smart economy” ha avuto un qualche successo nei settori della produzione elettrica grazie a generosi contributi pubblici, ma senza continuità programmatica. Spesso è stata l’industria da sola a capire come interpretare il futuro. Dire che tutte le Regioni italiane avrebbero agito meglio in caso di poteri reali in questa materia è probabilmente esagerato, ma certamente l’intermediazione dello stato non ha aiutato.
Oggi inoltre sta emergendo sempre più l’attuazione di politiche concrete di adattamento agli effetti del cambiamento climatico. E qui è ancora più importante la definizione del soggetto titolare di competenze nella materia.
In questo compito non c’è soltanto bisogno che ognuno faccia la sua parte come nel taglio delle emissioni di CO2, ma si tratta di mettere in campo competenze approfondite e specifiche su quali sono gli effetti che si palesano in un determinato ambito e adottare misure di difesa conseguenti. In questa situazione i singoli territori, da noi le Regioni, non sono isolati ma trovano spesso configurazioni di contiguità con le misure da adottare anche nelle loro prossimità esterne, dentro e fuori Italia. Il riferimento nel nostro caso alle aree delle Alpi Orientali e del Nord Adriatico appare una necessità.
In sintesi si può affermare che diventa sempre più evidente l’insufficienza strutturale delle organizzazioni statali nell’affrontare i percorsi di mitigazione ed adattamento ai cambiamenti climatici.
Alla fine di questo ragionamento vale inoltre la pena segnalare che probabilmente un modello di organizzazione futuro di un quadro istituzionale capace di confrontarsi con gran parte delle sfide che abbiamo di fronte, siano esse di carattere eonomico-produttivo, di infrastrutturazione dei trasporti, di confronto con i temi ambientali, è quello della identificazioni di “regioni europee” capaci di interpretare nelle loro omogeneità i grandi elementi che pesano sulla evoluzione delle comunità, salvaguardando tutte le caratteristiche identitarie che quelle comunità si sono costruite nel tempo.
Ed è evidente che, se pure le identità statali nazionali sono un patrimonio, bisogna impedire che queste vogliano operare in un regime di “sovranità” del tutto anacronistico e incapace di interpretare le diverse facce del futuro.
Senza l’ampliamento a questa prospettiva dell’attuale dibattito nella politica italiana sulle autonomie differenziate si rischia di perdere una occasione decisiva per ridelineare un futuro istituzionale di uno Stato che ormai non sa più a che santo votarsi.
Giorgio Cavallo