La Pianificazione scomparsa Considerazioni a cinquant’anni dalla Legge sulla Montagna
Ci sono due parole – “Pianificazione” e “Analisi Costi/Benefici” – che a me sembrano molto belle e rassicuranti, ma che, purtroppo, risultano ormai scomparse dal vocabolario e dal modo di agire e assumere le decisioni di gran parte dei nostri amministratori pubblici.
Questa amara constatazione muove dalla ricorrenza, passata nel silenzio generale, di un importante anniversario: sono trascorsi, infatti, cinquant’anni dalla pubblicazione – il 3 dicembre del 1971 – della Legge 1102, dai più considerata, se non la prima, l’unica “vera” legge sulla Montagna approvata nel nostro Paese. Quella che l’aveva preceduta – la 991 del 1952 – era stata infatti varata sull’onda dell’emozione suscitata dall’alluvione del Polesine e si limitava a considerare i territori montani un luogo dove si praticavano solo l’agricoltura, la zootecnia e l’artigianato e dove c’erano foreste e corsi d’acqua da regimare.
La Carnia ed il Friuli non furono estranei al cambiamento di visione e di competenze che scaturì esattamente 50 anni fa. A contribuire alla stesura e all’approvazione di quel fondamentale provvedimento ci furono anche alcuni parlamentari della nostra regione (mi permetto di ricordare solo il comunista Mario Lizzero, relatore di minoranza ed il socialista Bruno Lepre, intervenuti nel dibattito alla Camera), non a caso provenienti dalle file della Resistenza e dal CLN. I princìpi ed il modello a cui si ispirarono per le neo istituite “Comunità Montane” erano infatti l’autogoverno realizzato durante la Repubblica Partigiana e l’esperienza della Comunità Carnica, fortemente voluta da Romano Marchetti e a lungo presieduta da Michele Gortani.
Rispetto a quest’ultimo ente – che riuniva su base volontaria quasi una quarantina di Comuni (da Tarvisio a Forni di Sopra e da Forni Avoltri a Venzone), ma che era privo di finanziamenti e di competenze reali (tanto da venir definita ironicamente la “Comunità degli ordini del giorno”, per sottolineare che l’unico suo potere era quello di inviare lettere di protesta o di sollecitare l’intervento di altre istituzioni superiori, come la Provincia o qualche Ministero) – le Comunità Montane si caratterizzavano per due essenziali caratteristiche. Dovevano essere un organismo elettivo, di ampia rappresentanza democratica, non più limitata ai soli Sindaci (l’Assemblea dei 28 Comuni della Carnia sarà composta da 119 delegati) e diventare uno strumento di reale governo del territorio. Compito degli enti che in Friuli Venezia Giulia iniziarono a funzionare a partire dal 1973, era infatti la “pianificazione”, una parola ed un modo di operare che, come ho sottolineato in precedenza, oggi paiono caduti in disuso.
“Pianificare” significa, innanzitutto, analizzare i problemi di una zona e individuare gli obiettivi da raggiungere per risolvere le sue criticità ed eliminare gli svantaggi esistenti rispetto alle aree più sviluppate. Vuol dire, quindi, definire gli strumenti e le azioni più idonei per ottenere questo scopo, utilizzando anche l’analisi dei costi e dei benefici (compresi quelli di carattere ambientale) per valutare l’opportunità delle singole opere ed azioni. Per ultimo, ma non meno importante, si tratta di esaminare i risultati raggiunti rispetto agli obiettivi fissati e di imparare dagli eventuali errori commessi. Un esempio di questa pianificazione, per quanto non del tutto attuata, sono stati i documenti elaborati dall’architetto ed urbanista Luciano Di Sopra dopo il terremoto, per il Piano di Ricostruzione e Sviluppo della Carnia.
Ora, non si può certo dire che il modo di operare delle Comunità Montane non sia stato esente da critiche e che i risultati non siano stati inferiori rispetto alle attese, però, quello che è avvenuto in anni recenti, prima attraverso un lungo periodo di Commissariamento, poi con la loro sostituzione con le U.T.I. (passaggi che, in entrambi i casi, hanno comportato automaticamente l’assegnazione della presidenza al Sindaco del Comune più popolato, cioè Tolmezzo) ed infine con la creazione delle “Comunità di Montagna” (che hanno visto in Carnia una avvilente discussione, durata mesi, per la scelta del Presidente), ha avuto indiscutibilmente come conseguenza una perdita di rappresentatività del nostro territorio e del potere di interlocuzione con la Regione. In mancanza di un potere locale forte ed autonomo, sempre di più le scelte sono passate attraverso un rapporto diretto, spesso clientelare, tra i Comuni e gli Assessorati che hanno sede ad Udine e a Trieste, con il risultato di avere interventi di carattere campanilistico o particolare, che non sono pensati né producono reali vantaggi per l’intera comunità.
In questo periodo, nonostante la crisi e le note difficoltà, ci si è spesso sorpresi sentendo parlare di ingenti risorse regionali destinate alla Montagna. In effetti non si può certo dire che siano mancati gli investimenti, il fatto è che essi vengono impiegati, al di fuori di una seria e corretta pianificazione, per iniziative spesso inutili o addirittura controproducenti. Mi limiterò a fare tre esempi, tutti meritevoli, tra il 2020 e quest’anno, dell’attribuzione di altrettante “bandiere nere” da parte di Legambiente.
Il primo riguarda i vari milioni di euro, stanziati dallo Stato per il ripristino dei danni della Tempesta Vaia, che sono stati utilizzati, senza rispetto per le caratteristiche e l’ecosistema di quello che è considerato il ”re dei fiumi alpini”, nell’insensato spianamento delle ghiaie negli alvei dei principali affluenti del Tagliamento. Un intervento che è subito stato vanificato, ammesso che avesse avuto un senso e una logica, dopo la prima piena, come sembra essersi accorto recentemente anche uno dei tre Consiglieri Regionali eletti nel Collegio di Tolmezzo. Il secondo esempio è associato alle forti polemiche che sono sorte non solo nella nota vicenda legata al rifugio Marinelli, ma anche per altri progetti di nuove strade forestali. Se queste si sviluppano in aree in cui non c’è legname sufficiente da prelevare (o non ce n’è proprio, come nei bellissimi boschi di larice tra il rifugio Chiampizzulon e Malga Tuglia), se si sviluppano su versanti particolarmente scoscesi, con il rischio di innescare dissesti idrogeologici e di sfregiare il paesaggio, e se, infine, si prevedono sezioni larghe sei metri che cancellano o stravolgono splendidi sentieri e mulattiere del CAI, forse è meglio non farle, con buona pace dei progettisti e delle imprese costruttrici.
Vengo, infine, al caso dei 57 o 70 milioni di euro (l’importo preciso effettivamente stanziato non mi è chiaro) destinati a nuove piste e impianti di risalita nei poli sciistici. Ci sono due aspetti che vanno evidenziati. Il primo è che con i cambiamenti climatici in corso, investire simili somme immaginando quale potrà essere facilmente tra 5, 10 o 15 anni, il destino di opere collocate anche al di sotto degli 800 metri di altitudine, più che una scelta coraggiosa mi pare un comportamento da veri e propri giocatori d’azzardo. Che, in particolare, si prevedano 4 milioni per il ripristino di una vecchia pista da sci di Sella Nevea, esposta a Sud Ovest e già inserita nel 1986 tra gli esempi degli interventi sbagliati in una Mostra allestita dalla stessa Regione (che ebbe l’alto patrocinio del Presidente della Repubblica), dovrebbe essere sufficiente a far saltare sulla sedia e gridare allo scandalo chiunque. C’è però un altro motivo sul quale gli amministratori e l’opinione pubblica dovrebbero riflettere e sono i risultati prodotti nel recente passato dalle dispendiose politiche incentrate sul turismo invernale: nelle località interessate dagli investimenti c’è forse stato un incremento della popolazione residente, o, almeno, si è verificato un rallentamento del calo demografico? I dati ISTAT parlano chiaro: in vent’anni, dal 1991 al 2011, nonostante il piano di Promotur da 110 milioni di euro, a Tarvisio, Chiusaforte (Sella Nevea) e Ravascletto (Zoncolan) si è avuta una diminuzione dei residenti superiore al 20%, a fronte di una perdita media negli altri Comuni della Carnia, Val Canale e Canal del Ferro dell’11,4%.
Che dire? Ce n’è abbastanza per auspicare una nuova legge nazionale sulla Montagna, che responsabilizzi le popolazioni di questi territori e riporti in primo piano la pianificazione.
Marco Lepre
presidente di Legambiente della Carnia-Val Canale-Canal del Ferro