La Potenza Impotente: Il Demodeismo e il Paradosso dell’Umano
C’è una ferita antica che attraversa il pensiero occidentale, un taglio profondo che si insinua tra l’essere e il nulla: il fare, ciò che fa l’ente diveni-ente, facendolo diventare altro da sé, cioè il nulla di ciò che è. Emanuele Severino, acuto chirurgo di questa lacerazione, ha portato alla luce l’illusione che abita l’umano: la fede nel divenire, nella possibilità che l’essere possa mutarsi in altro da sé e che il nulla possa affacciarsi all’esistenza, la fede nell’azione aristotelica. Ma, ci dice il filosofo, questa è la grande svista del pensiero greco, il germoglio di una contraddizione che ha dato frutti velenosi: la tecnica, somma potenza che si rivela somma impotenza, ultimo atto di un errare ontologico.
La tecnica, nel suo significato originario, nasce come téchne, il fare che plasma il mondo. Contrapposta al páthos poetico, che sente e trasfigura, essa è la mano che costruisce, manipola, ordina. Ma l’uomo, in entrambi i casi, si mostra come homo faber, volontà di potenza che ambisce a piegare l’essere al proprio volere. Aristotele aveva intravisto nell’azione (praxis) e nella potenza (dynamis) il movimento tra ciò che è possibile e ciò che è compiuto. Tuttavia, Severino smaschera questa visione: l’essere, eterno e immutabile, non diviene; ciò che chiamiamo divenire è il gioco di luci e ombre dell’apparire e dello scomparire, non una vera trasformazione. L’essere è, il nulla non è. Punto.
Eppure, l’uomo insiste. Il suo fare è una ribellione contro questo limite, un atto di fede che cerca di sovvertire il principio di non contraddizione. La tecnica, culmine di questa fede nell’azione, si auto-potenzia e sfugge a ogni controllo, rovesciando i fini umani in un’incessante spirale di mezzi. Ed è qui che si rivela il suo paradosso: la massima potenza diventa la massima impotenza, una danza cieca che conduce l’uomo al bordo dell’abisso.
Nell’odierno regno dell’intelligenza artificiale, questa danza si fa frenetica. L’AI, vertice della tecnica, promette orizzonti infiniti, potenziando l’agire umano e, allo stesso tempo, svuotandolo di senso. L’uomo, nel tentativo di moltiplicare il proprio potere, si scopre privo di esso, vittima della sua stessa creazione. Qui si inserisce il grido del Demodeismo, un movimento che alza la voce contro il silenzio dell’autenticità, opponendosi al dominio del consumo e del profitto sull’arte e sul pensiero. Il poeta demodeista, figura nostalgica e rivoluzionaria, denuncia i pericoli di una tecnica che imita l’umano per oltrepassarlo cancellandolo, che riduce l’arte a eco senz’anima.
Ma il Demodeismo non si ferma alla denuncia: esso invoca un ritorno alla poesia come luogo di resistenza, uno spazio dove il dolore dell’umano si trasfigura in bellezza e verità. Nel grido poetico si celebra non l’azione che muta, ma la contemplazione che illumina. L’uomo, scoperta l’inutilità del suo fare, si apre all’essere eterno e trova nella manifestazione artistica il suo riscatto.
Emanuele Severino ci ricorda che la tecnica, nella sua essenza, è percepita come essenziale per la libertà dell’uomo dalla morte, ma la mano dell’uomo è troppo debole per impugnarla. A questo proposito, le parole di Eschilo nel suo Prometeo risuonano con forza: “La tecnica è troppo più debole della necessità (Zeus)”. La mano, il braccio, l’arms, l’arte, sono insufficienti di fronte alla Necessità: la volontà individuale si trasforma così in quel “sia fatta la tua volontà”.
E questa trasformazione, questo passaggio da “fai la mia volontà” a “sia fatta la tua volontà”, segna una delle grandi inversioni storiche. L’uomo, dapprima proteso a chiedere che il proprio progetto, il proprio futuro, si realizzi, finisce per comprendere che solo un ordine divino può salvare dalla tragicità della morte. Il mito si costruisce come difesa dalla crisi della presenza, un riparo contro l’orrore della decomposizione e del nulla. Ogni gesto, ogni cambiamento, si ripete in un ciclo che garantisce continuità, organizzando ciò che, altrimenti, sarebbe senza senso. Oggi, nella continuità dell’inversione mezzo-fine, nella tecnica moderna, viviamo una nuova forma di questa inversione: se un tempo Dio era il primo tecnico, oggi l’ultimo dio è la tecnica.
La tecnica, l’apice e il naufragio dell’umano, si rivela come il sogno infranto di una potenza che si dissolve nel proprio abbaglio. Ma nel momento in cui la potenza si svela impotente, si apre la necessità: il trionfo della poesia, il riscatto della visione, come consolazione al dolore dell’antica ferita. La potenza tecnica, che tenta di dominare l’essere, finisce per lasciare spazio alla contemplazione, al senso eterno che trascende ogni illusione di progresso. Il Demodeismo non è solo una risposta al nostro tempo: è una mano tesa verso l’eterno, un invito a riconoscere che l’essere è tutto ciò che già siamo, l’autentica potenza oltre ogni illusione.
Elisa de Silva