La vicenda di Mimmo Lucano ricorda le lotte e il processo al triestino Danilo Dolci nella Sicilia degli anni 50
È iniziato il 25 maggio scorso a Reggio Calabria il processo d’appello a Mimmo Lucano, l’ex sindaco di Riace. La vicenda è nota, il progetto d’accoglienza dei migranti plasmato dal sindaco nel piccolo comune calabrese era talmente ambizioso, inedito, e per molti esemplare da dare talmente fastidio al sistema che non solo ogni sorta d’ostacolo burocratico venne messo in campo per bloccarne la deflagrante umana innovazione, ma come è noto è diventato una contestatissima vicenda giudiziaria. Vicenda legale che ricorda il processo al triestino Danilo Dolci che nella Sicilia degli anni 50 diede vita ad una deflagrante protesta antisistema intollerabile per l’amministrazione statale di allora così come la vicenda di Riace è stata deflagrante per l’odierno sistema repressivo dell’accoglienza. Iniziamo con il dire che quello di questi giorni è il processo d’appello, in primo grado infatti, Lucano era stato condannato alla abnorme pena di 13 anni e due mesi di carcere dal Tribunale di Locri nell’ambito del processo Xenia con l’accusa di associazione a delinquere, frode, falso in atto pubblico, peculato, abuso d’ufficio e truffa. Secondo le motivazioni della sentenza, avrebbe strumentalizzato il sistema dell’accoglienza a beneficio della sua immagine politica, non di denari contante e bustarelle. I giudici hanno ritenuto il sistema organizzato da Lucano un’organizzazione “tutt’altro che rudimentale”, che rispettava regole precise e che era gestita da Lucano “per poter conseguire illeciti profitti (non in denaro) attraverso i sofisticati meccanismi, collaudati negli anni e che ciascuno eseguiva fornendogli in cambio sostegno elettorale”. In sostanza nel suo paese, Lucano avrebbe messo in atto una serie di espedienti atti ad aggirare la disciplina prevista dalle norme nazionali per ottenere l’ingresso e il soggiorno delle persone migranti in Italia, come la celebrazione di finti matrimoni. Poco importa se le normative erano sbagliate e il sistema di “accoglienza” italiano in odore di inumanità. Poi nella sentenza c’è anche una “ciliegina” si dice infatti che l’ex sindaco non ha tratto profitti in denaro dalle sue azioni, ma, si legge nelle motivazioni della sentenza, si sarebbe comunque arricchito grazie l’acquisto di un frantoio e di numerosi beni immobili da destinare ad alberghi per l’accoglienza turistica, su cui sapeva di poter contare a fine carriera. Insomma li ha acquistato con soldi suoi ma l’intenzione era quella di delinquere. La pena comminata il 30 settembre 2021 era stata quasi il doppio rispetto alle richieste del procuratore capo di Locri, Luigi D’Alessio, e dal pubblico ministero Michele Permunian, che avevano chiesto 7 anni e 11 mesi di carcere. Con Lucano erano state condannate anche altre 17 persone, coinvolte a vario titolo nella gestione dei progetti di accoglienza a Riace. La vicenda di Lucano è da sempre divisiva nel dibattito pubblico italiano e forse per questo Lucano sta rischiando molto, gli esponenti dei partiti politici di sinistra ritengono Riace un modello di integrazione e credono nella buona fede del suo protagonista, magari poco rispettoso delle formalità amministrative, ma di certo animato da obiettivi umanitari e generosità. Anche alcuni influenti mezzi di informazione statunitensi come il New York Times e Time hanno raccontato con toni positivi la storia di Riace e nel 2016 la prestigiosa rivista Fortune ha inserito Lucano fra i 50 personaggi più influenti al mondo. Le forze politiche tradizionalmente contrarie all’immigrazione, al contrario, lo hanno dipinto come un approfittatore a capo di un sistema opaco e dannoso. Alla notizia della condanna, infatti, diverse personalità del mondo politico e della società civile italiana avevano espresso la propria solidarietà all’ex sindaco, altre avevano sottolineato la gravità dei reati contestati e criticato aspramente il business dell’immigrazione addebitatogli. Di opaca però in questa vicenda c’è stato anche il processo dove non vennero ammesse telecamere in aula, cosa che invece oggi il Tribunale di Appello di Reggio Calabria consentirà accogliendo la richiesta dei vari mezzi di informazione, che seguiranno i lavori. Gli avvocati che difendono Lucano, tra cui l’eurodeputato del Partito democratico Giuliano Pisapia, ritengono forzata se non surreale la lettura dei fatti nel processo di primo grado, finalizzata, in sostanza, a “dichiarare Lucano responsabile a tutti i costi”. La richiesta dei difensori di Lucano e degli altri imputati di riaprire l’istruttoria sarà discussa subito dopo le segnalazioni dei giudici aggiunti, che potrebbero concludersi già nella prossima udienza, il 6 luglio. La sociologa Giovanna Procacci, che ha seguito tutte le udienze, paragona il processo Lucano al processo contro Danilo Dolci per lo “sciopero alla rovescia” del 1956, in cui l’attivista triestino fu difeso da Piero Calamandrei, il quale in quell’occasione parlò di “rovesciamento di senso”: c’è nei processi politici un marcatore comune, non ci sono fatti ma idee, sparisce il contesto, l’identità dell’inquisito viene capovolta. In questo caso, l’accoglienza diventa sistema clientelare per l’accaparramento dei voti, il volontariato peculato, la trasparenza amministrativa corruzione. Ed in effetti la storia di Danilo Dolci ha certamente delle analogie, pur con le ovvie differenze, con quella di Mimmo Lucano come sono effettivamente applicabili alla situazione giudiziaria di oggi le parole pronunciate da Calamandrei nella sua arringa in difesa di Dolci tenuta il 30 marzo 1956 davanti al tribunale penale di Palermo. Vale la pena ricordare se pur brevemente la vicenda siciliana di Danilo Dolci nato il 28 giugno 1924 a Sesana che all’epoca era provincia di Trieste mentre oggi è territorio sloveno). La vicenda inizia nel 1952 quando Dolci sceglie di trasferirsi nella Sicilia occidentale, l’area di Partinico a forte densità mafiosa, dove promuove lotte nonviolente contro la mafia, la disoccupazione, l’analfabetismo e l’assenza dello stato. Una Sicilia dalle enormi disparità sociali nella quale Dolci lotta per l’affermazione dei diritti umani e civili fondamentali. Nella sua attività di animazione sociale e di lotta politica, Danilo Dolci ha sempre impiegato con coerenza e coraggio gli strumenti della nonviolenza. La svolta avviene nel gennaio del 1956, a San Cataldo, dove oltre mille persone spinte dall’esempio di Dolci danno vita ad uno sciopero della fame collettivo per protestare contro la pesca di frodo, tollerata dallo Stato e promossa dalla mafia, che priva i pescatori dei mezzi di sussistenza. Ma la manifestazione è presto sciolta dalle autorità, con la ridicola motivazione che “un digiuno pubblico è illegale”. Il 30 gennaio inizia sempre promosso da Dolci “lo sciopero alla rovescia”. Alla base c’è l’idea che, se un operaio, per protestare, si astiene dal lavoro, un disoccupato può scioperare invece lavorando. Così centinaia di disoccupati si organizzano per riattivare pacificamente una strada comunale abbandonata; ma i lavori vengono fermati dalla polizia e Dolci, con alcuni suoi collaboratori, viene arrestato per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, istigazione a disobbedire alle leggi e invasione di terreni. L’episodio suscita indignazione nel Paese e provoca numerose interrogazioni parlamentari. Il processo ha enorme risalto sulla stampa, e tra i suoi avvocati difensori c’è appunto il grande giurista Piero Calamandrei, che scrive: «[Il Pubblico Ministero] ha detto che i giudici non devono tenere conto delle “correnti di pensiero”. Ma cosa sono le leggi se non esse stesse delle correnti di pensiero? Se non fossero questo non sarebbero che carta morta. […] E invece le leggi sono vive perché dentro queste formule bisogna far circolare il pensiero del nostro tempo, lasciarci entrare l’aria che respiriamo, metterci dentro i nostri propositi, le nostre speranze, il nostro sangue, il nostro pianto. Altrimenti, le leggi non restano che formule vuote, pregevoli giochi da legulei; affinché diventino sante esse vanno riempite con la nostra volontà.» Poi lo stesso Calamendrei nell’arringa sempre del 30 marzo disse anche: «Anche oggi l’Italia vive uno di questi periodi di trapasso, nei quali la funzione dei giudici, meglio che quella di difendere una legalità decrepita, è quella di creare gradualmente la nuova legalità promessa dalla Costituzione», e aggiunse «Vorrei, signori Giudici, che voi sentiste con quale ansia migliaia di persone in tutta Italia attendono che voi decidiate con giustizia, che vuol dire anche con indipendenza e con coraggio questa causa eccezionale: e che la vostra sia una sentenza che apra il cuore della speranza, non una sentenza che ribadisca la disperazione». Nel processo sfilarono come testimoni della difesa personaggi come Carlo Levi e Elio Vittorini; a suo favore si schierarono tra gli altri: Giorgio La Pira, Guido Piovene, Renato Guttuso, Bruno Zevi, Bertrand Russell, Alberto Moravia, Norberto Bobbio, Cesare Zavattini, Ignazio Silone, Enzo Sellerio, Aldo Capitini, Paolo Sylos Labini, Eric Fromm, Jean-Paul Sartre, Aldous Huxley, Jean Piaget. Alla fine, Dolci fu condannato a 50 giorni di carcere, ma uscì comunque vincitore dato che il clamore mediatico provoco un’innesco nella presa di coscienza nazionale che la mafia esisteva mentre la narrazione imperante all’epoca era di negazione del fenomeno.