L’incubo Trieste perseguita il Friuli ma forse, più che una minaccia, oggi potrebbe essere una opportunità
Pur tra ambiguità colossali (non dimentichiamo che la spinta attuale nasce dal fallimento di una riforma dei Comuni) si è aperto un dibattito sul futuro della Regione e sul ruolo che in esso potrà avere la città di Trieste.
Sembra un dibattito senza rete e dove tutto è possibile. Ma è bene star sempre attenti a non gettare via anche il bambino assieme all’acqua sporca. Il che significa che, se oggi si discute, lo si deve al fatto che bene o male la Regione F-VG esiste da cinquantacinque anni ed ha costituito un riferimento essenziale della nostra vita.
Nella nuova legislatura regionale si naviga a vista ma, quanto a proposte sensate, siamo sostanzialmente alla frutta: e qualcuno, non senza ragione, pensa che tutto sommato sarebbe meglio tornare ad affidarsi a un Doge, magari in attesa di tempi migliori.
In questo disordine sta emergendo una qualche nuova prospettiva per Trieste, intesa nella sua dimensione storica di approdo nord Adriatico in grado di offrirsi a chi volesse approfittare dell’occasione.
Nel 1719 Trieste fu scelta per una precisa funzione economica dell’Impero Asburgico e da esso supportata in ogni modo. Allora, nell’aprirsi di fasi sempre più spinte di libero commercio, la capacità propulsiva di uno stato imperiale, dipendeva dal dotarsi di almeno una infrastruttura dedicata. Anzi l’Impero quando divenne duale ne fece due, utilizzando Fiume come terminal per la corona ungherese.
Oggi le condizioni sono diverse, e nessun “impero” dell’area intende “correre” per Trieste, come nel 1945. E’ vero, in passato c’erano le città Anseatiche e attualmente prosperano esempi di città-porto-stato come Singapore, descritta dall’illusione tecnocratica di Parag Khanna, ma in genere una infrastruttura moderna vive di relazioni, di protezioni e talvolta magari di padroni esterni, come il Pireo.
Trieste oggi non ha nulla alle spalle, se non l’abilità dei propri “faccendieri”. All’Italia, a parte le cerimonie di routine che riscaldano il cuore, di Trieste può importare molto poco, ha ben altre gatte da pelare (e da valorizzare se ci riesce), e non ha alcuna intenzione di proiettarsi nei Balcani, né con eserciti, né con capitali strutturati e organizzati. Per ora il delirio di onnipotenza di Salvini si ferma alla difesa dei sacri confini.
Tutto l’attuale dibattito su Trieste ha fondamenta fragili. Se, come pare, la “belt and road” rallenta, si può ottimizzare l’offerta con aste spezzatino che utilizzino al meglio le attuali capacità organizzative, ma il porto da solo non basta a rilanciare una città che in poco meno di cinquanta anni ha perso 70.000 abitanti, malgrado politiche di sostegno straordinarie.
Qualche speranza in più viene dai punti franchi portuali riscoperti nell’Allegato VIII del Trattato di Pace, lo stesso che istituì il TLT che alcuni ritengono mai superato da atti internazionali di uguale portata. E curiosamente mi è capitato di osservare che queste “zone industriali extra territoriali” sono esattamente quanto prevedeva il Trattato di Osimo degli anni 70, rifiutato in massa dalla città di Trieste e origine della Lista per Trieste. Comunque anche l’arrivo dei “cinesi” desta sospetti e preoccupazioni che stanno dilagando sia in città che negli ambienti manifatturieri regionali.
Ma come questi elementi vengono conosciuti ed interpretati in Friuli? In un Friuli totalmente privo di luoghi di pensiero strategico, nessuno se ne accorge. Anzi per qualcuno l’agitarsi attuale di Trieste con l’obiettivo seppur fumoso della Città-Area Metropolitana appare una prospettiva utile per arrivare finalmente ad un surrogato di una Regione Friuli che tanto abbiamo bramato nella seconda metà del secolo scorso. Tutto sommato una buona “Provincia” che si occupa di artigianato e agricoltura montana val bene una messa.
Credo che questa logica ed il tavolo dove si esprime vadano ribaltati. La marginalità di Trieste per l’Italia significa anche una marginalità del Friuli, ed il modo in cui la Regione F-VG è stata trattata finanziariamente dal 2008 in poi, nella logica del pollo da spennare, ne è una dimostrazione.
Compito di un pensiero strategico è quello di trasformare le minacce in opportunità. Ed è questo che oggi manca.
Come nel 1719 l’Impero Asburgico scelse in Trieste il suo porto aperto al mondo, così oggi nel 2019 il Friuli può, pur tenendo conto dei propri limiti, rilanciare questa opportunità assumendosene un ruolo di “riferimento guida”. Deve farlo in una prospettiva “concordata” di sganciamento dalla subalternità da uno stato allo sbando e proponendosi come “area chiave” di una Regione europea trans statale, chiamiamola per comodità Alpe Adria, che nel costruire al proprio interno relazioni complesse, sia in grado di trovare una propria “governance” coordinata dei percorsi territoriali, sociali e finanziari che riguardano l’intera area.
Trieste quindi va intesa come punto di partenza di un progetto di condivisione di strategie per l’insieme delle iniziative e delle infrastrutture di una area geografica multipolare che può far coincidere i comuni interessi in una unica prospettiva. Se l’UE continuerà ad esistere, questo angolo di mondo può mettere in campo molti strumenti per promuovere una sua centralità. Non solo logistica e infrastrutturale ma anche economico-produttiva, culturale ed ambientale.
Forse non tutti gli attuali “stati sovrani” di riferimento sono pronti ad un salto di questo tipo, tra vicini e parenti proliferano i serpenti, i containers, la fauna ittica e magari il gas aiutano le invidie, ma la speranza che la ragione prevalga si basa sulla mancanza di alternative utili alla efficienza di una gestione coerente delle emergenze che il mondo attuale ci pone, in primis il cambiamento climatico.
E, se ci sarà la forza per il “Secondo Statuto speciale di Autonomia” che definisca un nuovo intelligente rapporto tra uno Stato Italiano conscio dei propri limiti e i territori del F-VG, è questa la direzione che deve indicare.
Il futuro per il Friuli, troppo avezzo nella sua storia a proteggersi dai razziatori esterni, è uscire finalmente da un atavico complesso di inferiorità e guidare un processo di trasformazione che implichi anche il rilancio di Trieste in un quadro più generale tra Alpi e nord Adriatico.
Per fare ciò serve un forte progetto politico e amministrativo di cui potrebbe farsi carico l’attuale discussione per la definizione del rapporto tra Regione F-VG e i territori che la compongono, alla ricerca di un nuovo equilibrio dove non prevalga la pura mediazione di interessi tra le spinte divaricanti ma l’apertura di una visione strategica. Ribaltare il tavolo del confronto significa prendere coscienza della dimensione reale dei problemi, della profondità della crisi che coinvolge oggi l’idea stessa di Regione F-VG e di un futuro che non può essere solo di accorpamento di Comuni o di riesumazione di Provincie.
Ed è auspicabile che la obbligata tenzone per le prossime elezioni europee possa vivere anche di qualche originale prospettiva che ci coinvolga direttamente e non di puro sondaggio leaderistico.
Giorgio Cavallo