Piove sul bagnato
Niente da fare, più si è sfigati e più la sfiga ti insegue. Non bastavano 12 anni di guerra a rendere invivibile buona parte della Siria, ci voleva il carico del terremoto a terminare la devastazione già di per sé dilagante. Certo, i danni maggiori sono quelli subiti dalla Turchia, ma se si prende in considerazione l’estensione dell’area colpita in Anatolia e quella siriana e si fa una proporzione, certamente provvisoria perché i purtroppo i dati sono sicuramente parziali e decisamente sottostimati rispetto a quelli definitivi, il numero delle vittime appare superiore nel lato sud del confine. E dire che buona parte dei milioni (non è mai stato chiaro il loro numero nell’area) di persone che vivono nelle zone occupate dai turchi e dai loro (più o meno) alleati, una casa non ce l’avevano nemmeno prima del sisma in quanto circa la metà di loro era sistemato in campi profughi e la distruzione delle abitazioni causata dalla guerra soprattutto nella sacca di Idlib era metodica.
Inoltre ci si è messo anche il tempo che fino a poco tempo fa era stato particolarmente clemente, ma che negli ultimi giorni si è messo decisamente al brutto con temperature sotto zero e intense nevicate proprio nelle aree interessate dal terremoto. E dove non nevica, piove; giusto per rendere le operazioni di soccorso più complicate e le possibilità che coloro che sono rimasti sotto le macerie, ma ancora in vita possano essere salvati. Passate 72 ore dal crollo che li ha travolti, le possibilità di ritrovarli in vita sono quasi nulle.
I danni procurati dal terremoto si sono concentrati prevalentemente nel nord ovest della Siria, risparmiando il NES (North East Syria) almeno da questa ulteriore catastrofe. Grande paura in quell’area, ma i danni nella zona controllata dall’Amministrazione Autonoma a guida kurda sono stati limitati.
Cosa succederà ora nella regione, è difficile da ipotizzare. I messaggi di cordoglio e di solidarietà da parte di tutto il modo sono arrivati ad Ankara, un po’ meno a Damasco come d’altra parte le notizie che arrivano dalle due diverse aree sono poco uniformi. È vero che le regioni confinanti con la Turchia sono le più colpite, ma è anche vero che quel poco che si conosce rispetto a quanto accaduto in Siria, è prevalentemente relativo alla situazione nelle zone invase dai turchi e fuori dal controllo del governo siriano, mentre da Lakatia, Aleppo, Hama e dintorni dove il sisma ha colpito duro, le informazioni sono poche e confuse.
La “macchina degli aiuti” è per fortuna già partita, ma quasi tutto è diretto in Turchia, anche a causa di alcuni particolari con cui si dovrà fare i conti. La Siria è sotto embargo internazionale ed in più gli USA applicano il cosiddetto “Cesar Act”, una forma di embargo pressochè totale che se non verrà rimosso, impedirà di fatto a buona parte degli aiuti di arrivare nelle zone sotto controllo di Damasco. C’è inoltre la questione dei valichi internazionali attraverso cui gli aiuti dovranno arrivare in territorio siriano. Ad oggi e dopo l’ennesimo rinnovo (e solo fino a Luglio di quest’anno) da parte del consiglio di sicurezza dell’ONU, il solo confine abilitato all’ingresso degli aiuti delle agenzie umanitarie è quello di Bab Al Hawa, proprio nell’area maggiormente colpita dal terremoto. In una situazione del genere aprire i valichi risulterà essenziale per evitare intoppi nel flusso degli aiuti.
Naturalmente, essendo Bab Al Hawa fuori dal controllo di Damasco e nelle mani di Hayat Tahrir al Sham, il gruppo di opposizione che fa riferimento ad Al Qaeda (anche se ultimamente si è ufficialmente dissociato “dall’organizzazione madre”) e che con il governo siriano si scontra quotidianamente.
Cosa dunque succederà in quei martoriati luoghi in cui la distruzione era metodica ben prima del recente sisma? È credibile che questa ulteriore disgrazia possa in qualche modo provocare, almeno temporaneamente, una specie di accordo che permetta agli aiuti di raggiungere le destinazioni dove sono vitali, magari attraverso una collaborazione tra le parti? All’interno della sua immensa tragicità, questo cataclisma potrebbe rappresentare una buona occasione per aprire ad una soluzione diplomatica e pacifica di un contesto che al momento appare senza sbocco, un’opportunità di mettere a tacere la armi e rinunciare a minacce che potrebbero rendere la situazione, se possibile, più tragica.
Certamente ci vorrebbe un’onestà e una trasparenza che al momento non si intravede; per dirne una, la proposta (poi smentita da Damasco) di un’offerta di aiuti da parte di Israele che aprirebbe il confine del Golan per permettere il passaggio dei feriti per farli curare negli ospedali di Tel Aviv, puzza parecchio di gioco sporco. Ma vista la complicatezza della situazione dell’intera area mediorientale con equilibri instabili che sono soggetti a precipitare da un momento all’altro, se si trovasse un’intesa almeno volta ad affrontare l’attuale emergenza, chissà che in futuro ciò non possa rappresentare le basi per accordi più stabili.
Non so, forse esagero e comunque sia, per ora sarebbe già importante che il mondo intero si rendesse disponibile ad intervenire con ciò che ad ognuno compete e per quanto possa per portare un minimo di sollievo a chi ha subito questa tragedia. Docbrino