Reddito di Cittadinanza: Discriminazione verso stranieri è incostituzionale. Lo sanno tutti ma si conta nella lentezza della giustizia
Che il reddito di cittadinanza sia la giusta risposta alla “povertà” o meno è oggetto di dibattito politico, come lo è la sua effettiva rapida attuazione soprattutto nelle parti più fantasiose della norma che prevede, ad esempio, le bizzarre figure dei navigator che sembrano uscire da un videogioco più che da un atto legislativo. Che il percorso del Reddito di Cittadinanza” sia in salita è più che ovvio e non solo per la scarsa dotazione finanziaria, anche se per onestà intellettuale bisogna dire che è un tentativo di porre rimedio alla situazione pesante in cui si trovano almeno 5 milioni di cittadini italiani. Fra gli altri ostacoli posti dall’eccessiva faciloneria con cui vengono affrontati alcuni temi fondanti, come quello dei centri per l’impiego che si vorrebbero veder funzionare con un tocco di bacchetta magica grillina, c’è un vero macigno che si pone sulla sua strada: quello della parziale incostituzionalità.
Apertamente incostituzionale sembra infatti essere a giudizio di molti giuristi quella parte che ne limita la fruibilità agli stranieri residenti in Italia. In proposito appare chiaro e definitivo lo studio dell’ “Ufficio ricerche sulle questioni del lavoro e della salute” del Senato praticamente ignorato dal governo giallo-verde nella sua bramosia di lanciare il reddito di cittadinanza per il bene delle proprie sorti elettorali future.
L’Ufficio del Senato, nel proprio Dossier, fa riferimento ai contenuti della Direttiva 2003/109/CE, recepita con il decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3, il cui art. 1 ha sostituito l’art. 9 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero).
La Direttiva, in particolare, «riconosce lo status di soggiornante di lungo periodo ai cittadini di paesi terzi che risiedano regolarmente in uno Stato membro da almeno cinque anni» (art. 4), «prevede poi che i soggiornanti di lungo periodo siano equiparati ai cittadini dello Stato membro in cui si trovano ai fini, tra l’altro, del godimento dei servizi e prestazioni sociali» (art. 11).
Disobbedire a tale Direttiva è in contrasto coll’art. 117 della nostra Costituzione che recita come «la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali».
Esistono già diverse pronunce della Corte Costituzionale che hanno cassato norme regionali in casi di simili discriminazioni.
Da ultimo, l’ordinanza della Suprema Corte n. 106 del 10 aprile 2018 – presidente Giorgio Lattanzi, relatore Mario Rosario Morelli – bocciava una norma della Regione Liguria in merito all’assegnazione di alloggi di edilizia pubblica che allungava a 10 anni di residenza il termine per poter presentare domanda, statuendo «il manifesto contrasto» alla Direttiva Europea. Per la Corte è inoltre necessario che l’eventuale termine discriminatorio «sia contenuto entro limiti non arbitrari e irragionevoli».
Analogamente la Corte si era pronunciata nel 2014, con l’ordinanza n. 168 – presidente Gaetano Silvestri, relatore Giuseppe Tesauro – avverso una norma della Regione Valle d’Aosta che limitava il diritto all’alloggio popolare ai residenti da almeno 8 anni nella Regione. Lì la Corte, dichiarando “l’illegittimità costituzionale” della norma scriveva che questa «determina un’irragionevole discriminazione». Le norme legislative, ricordava la Corte, «debbano essere in ogni caso coerenti ed adeguati a fronteggiare le situazioni di bisogno o di disagio, riferibili direttamente alla persona in quanto tale». Nel caso della Valle d’Aosta, concludono i Magistrati, «è agevole ravvisare la portata irragionevolmente discriminatoria della norma regionale» poiché “Non è, infatti, possibile presumere, in termini assoluti, che i cittadini dell’Unione che risiedano nel territorio regionale da meno di otto anni, ma che siano pur sempre ivi stabilmente residenti o dimoranti, e che quindi abbiano instaurato un legame con la comunità locale, versino in stato di bisogno minore rispetto a chi vi risiede o dimora da più anni e, per ciò stesso siano estromessi dalla possibilità di accedere al beneficio».
Il Reddito di Cittadinanza, differentemente dal Reddito di Inclusione (REI) che sostituisce, non rispetterebbe la Direttiva.
Il primo comma dell’art. 3 del Decreto Legislativo 147/2017 istitutivo del REI individuava tra i beneficiari il «cittadino dell’Unione o suo familiare che sia titolare del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, ovvero cittadino di paesi terzi in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo».
Il Decreto Legge n. 4/2019 dopo aver copiato pari pari questo passo, nel primo comma dell’art. 2, aggiunge, nel successivo paragrafo, un’ulteriore limitazione: «residente in Italia per almeno 10 anni».
Questo limitazione, illogica e discriminatoria, deve essere soppressa trattandosi, il Reddito di Cittadinanza, di una misura che costituisce “livello essenziale delle prestazioni”. Ovviamente questi paletti sono stati inseriti per dare risposte alle necessità leghiste di rendere digeribile il provvedimento al suo elettorato, almeno alla parte più xenofoba di questo. La logica è che comunque passerà del tempo pro che si attuino le procedere perchè l’Alta corte si venga chiamata alla pronuncia. Nel frattempo saranno passate sia le elezioni Europee che le amministrative e forse, chissà, delle nuove politiche.