Una Regione perduta? Le prospettive dopo un terzo della legislatura corrente
Le stagioni si susseguono e così, senza quasi accorgersene, è ormai trascorso quasi un terzo della legislatura 2018-2023 per la Regione F-VG, sostanzialmente quello che avrebbe dovuto individuare il cammino da intraprendere.
A sentire la narrazione di alcuni protagonisti di questo ultimo anno e mezzo si rischia di non capirci molto: stiamo lavorando sodo per voi ed i risultati si vedranno a breve dice la maggioranza, siete in confusione e se talvolta agite non fate altro che seguire quello che abbiamo fatto noi, ribatte il PD.
Il ping pong che i mezzi di comunicazione amplificano non sono molto utili per esprimere un giudizio non epidermico e forse vale la pena di sezionare gli atti e le azioni secondo una griglia interpretativa che metta al centro dell’attenzione le specificità politiche ed amministrative del territorio regionale.
Individuerei questi filoni principali:
La capacità di produrre una visione strategica: cioè di percepire i problemi economici e sociali della Regione, nella loro evoluzione storica, in confronto anche critico rispetto alle spinte prevalenti che provengono dalle chiassose diatribe della politica statale;
Lo stato reale dell’autonomia speciale del F-VG in una fase di scontro tra spinte centralizzatrici ed evidenti esigenze di trovare nello specifico dei territori le risorse, anche burocratiche, per una efficace e dedicata azione di governo;
Il rapporto finanziario con lo stato dopo il decennio terribile 2008-2018;
La produzione legislativa del Consiglio Regionale ed il rapporto della stessa con l’attività amministrativa della Giunta Fedriga;
Lo stato della democrazia territoriale, intesa come capacità del sistema integrato regionale di attivare nella società confronti e partecipazioni delle istituzioni locali, delle comunità e dei cittadini (singoli ed associati) di fronte ai problemi sul tappeto ed alla loro soluzione.
Naturalmente non c’è alcuna pretesa che su ognuno di questi segmenti sia stata trovata e imboccata una strada definitiva. Ma nell’insieme possono permettere di capire se l’agire istituzionale segue una logica di coerenza. Essi sono stati individuati a partire dalla convinzione che la criticità della situazione sociale, economica ed istituzionale del F-VG sia esplosa in maniera virulenta nel decennio appena trascorso, pur se con le radici in un periodo più lungo, ed abbia determinato una fase di decadenza non recuperabile con una routinaria attività amministrativa. Decadenza che peraltro ha intaccato la stessa considerazione che la popolazione del F-VG riponeva nella specialità regionale.
Quale visione strategica?
Per la verità ritengo che dopo gli anni di Illy la Regione ha rinunciato a darsi il compito di individuare un proprio ruolo nello spazio europeo. Al tempo lo studio Monitor da un lato e l’azione quasi diplomatica dello stesso Illy per una integrazione del F-VG con Centro Europa e Balcani non erano “brut di fasui”. Che poi da ciò nascesse una centralità quasi ideologica di Trieste, come nel caso del Corridoio V, ne derivava un limite, ma l’orizzonte del pensiero era ampio.
Il periodo dell’opaco Tondo trascorse senza mai riprendersi dallo choc della crisi, sperando di superarla con un rilancio di grandi opere infrastrutturali, utili ed inutili, dalla III Corsia Autostradale alla Cimpello-Gemona. Per finire poi abbagliato ed abbindolato dal federalismo fiscale di Tremonti dal costo infinito dal 2010 all’eternità.
D. Serracchiani prosegue nel cammino precedente salvo voler dimostrate di essere l’allievo prediletto di un governo (e di un Presidente di Consiglio e segretario di partito) che obbedisce all’Europa sulla strada di un monetarismo neo liberista, pronta ad anticipare tutte le “riforme possibili”. Con ciò cadendo nel tritacarne del furore popolare contro il centro sinistra, ritenuto colpevole anche al di là dei propri demeriti. In questa fase si salvano per rilevanza due vicende non estemporanee: la riscoperta delle potenzialità del porto di Trieste e il successo globale del modello produttivo della Fincantieri.
I nuovi gestori usciti dalle elezioni del 2018, al di là di apparizioni di circostanza, appaiono totalmente privi di qualsiasi interpretazione utile sul futuro della Regione, e, per obbedienza e magari anche convinzione, si limitano a difendere i confini della patria con muri e pattuglie miste. Dentro la patria poi le telecamere leniscono l’angoscia per una sicurezza perduta che prevale su ogni altro sentimento.
A Trieste ci si crogiola aspettando Jinping e Trump. Ma le politiche trans statali d’area possono considerarsi esaurite con scambi di birra, cevapcici, frico e passeur. E pensare che mai come oggi il pensiero geo strategico sta tornando di moda assieme ai conflitti egemonici dei nuovi grandi “imperi”. E quando la storia si muove l’area tra le Alpi e il nord Adriatico non è mai marginale.
Lo stato reale dell’autonomia speciale
E’ un po’ la conseguenza della assenza di una percezione strategica di un proprio ruolo anche per rivendicarlo nei confronti di un governo amico. Non si tratta soltanto di evitare che norme approvate dalla Regione vengano bocciate per presunta incostituzionalità, ma proprio della necessità di una coerente rilettura dello Statuto di autonomia per individuare i percorsi di recupero di spazi di azione in campi e materie profondamente modificatisi dal 1964 ad oggi (in materie prevalentemente di significato economico e produttivo) e su cui è necessario sia un lavoro di manutenzione giuridico interpretativa, sia l’individuazione delle necessità che si sono evidenziate nel corso degli anni.
Un più che dignitoso Comitato Misto tra Stato e Regione F-VG viene sostanzialmente sacrificato (e sottoutilizzato) proprio per la mancanza di una visione politica che sappia contrastare un clima generale di emarginazione dei temi collegati alle specialità regionali. La regressione del dibattito, proprio nelle sue interpretazioni costituzionali, legato al conflitto intergovernativo sulla devoluzione di competenze ai sensi dell’art.116 della stessa Costituzione per le Regioni a statuto ordinario non può essere affrontato con una logica puramente difensiva.
Sul tema delle nuove competenze la Regione F-VG sembra porsi solo rivendicando brandelli organizzativi (più che legittimi) in materia scolastica senza riuscire a rendere credibile un ben più ampia necessità di guidare una materia che, per evidenti motivazioni geografiche (plurilinguismo) e storiche, necessita di una interpretazione che non può certo collimare con la visione “risorgimentale” che della materia scolastica propongono molte forze politiche e gli stessi sindacati di categoria. E peraltro le esternazioni del pensiero Cisint-Fedriga sulla volontà di allontanare una fantomatica insidia di “sinistra” dalla scuola danno una idea ben misera di quanto il territorio deve chiedere alla scuola stessa.
Nulla si muove per quanto riguarda il governo del territorio ed i suoi evidenti collegamenti con politiche trans statali, in una area europea dove solo la capacità congiunta di intervento di soggetti istituzionalmente diversi può produrre risultati significativi e condivisi, come nel caso ormai routinario del cambiamento climatico e delle politiche energetiche. O la regione diventa “soggetto” in queste direzione o di fatto non esiste. Ma da sostanziali negazionisti intrisi di nazionalismo passatista c’è ben poco da aspettarsi.
Il rapporto finanziario con lo Stato
L’elemento dolente della specialità regionale è stato nell’ultimo decennio il rapporto finanziario con lo Stato, prima nella forma di contributo per l’attuazione del federalismo con l’accordo Tremonti-Tondo, poi con i due patti Padoan-Serracchiani (2014, 2018) nella definizione del contributo regionale al risanamento dei conti dello Stato. Semplificando si può affermare che le entrate proprie della Regione derivanti dalla compartecipazione alle riscossioni erariali sono state tagliate, per risanare la finanza pubblica, di una media di un miliardo all’anno nel decennio trascorso. Le ripercussioni in termini di capacità di spesa della Regione e degli enti locali e territoriali sono state disastrose ed hanno determinato quel crollo degli indici sociali ed economici che ogni tanto trapelano anche dai mezzi di comunicazione.
All’inizio di quest’anno, peraltro dopo che la finanziaria dello stato per il 2019-2021 aveva definito il quadro delle cifre, c’è stato il nuovo round di “trattativa” tra la nuova giunta regionale ed il nuovo governo, definibile come accordo Tria-Fedriga, presentato come la svolta nei rapporti tra Stato e Regione (più di 800 milioni in meno di contribuzione regionale in tre anni secondo Fedriga ed i suoi assessori). In realtà il quadro finanziario, a parte alcune scadenze di leggi, è stato solo “shakerato” mescolando alcuni elementi e rimandando al futuro diverse partite aperte. A onor del vero va segnalata positivamente l’assunzione in toto della competenza regionale in materia di finanza degli enti locali, peraltro nel quadro di una oscura definizione di alcune questioni in corso. Tra queste spicca la rinuncia ad incassare circa 100 milioni di euro derivanti da una causa vinta presso la Corte Costituzionale in merito al sovragettito IMU e la rinuncia anche ad altri diritti eventualmente sorgenti da ulteriori sentenze della Consulta.
Il nuovo corso di rapporti finanziari con lo Stato di fatto non esiste e si viaggia sempre su livelli di contribuzione superiori a quelli delle altre regioni a statuto speciale, salvo che la propaganda del nuovo regime non ci risparmia “nebbia e bugie” che con difficoltà vengono smascherate in una materia non facilmente comprensibile dal “popolo”.
La produzione legislativa ed amministrativa
La nuova legislatura si è aperta all’insegna di due temi quadro da affrontare risolutamente per evitare un incancrenirsi di situazioni percepite come fortemente negative: la questione della sanità e quella degli Enti Locali.
Il giudizio sulla prima può essere sospeso perché a fronte di un nuovo inquadramento organizzativo del sistema non si può ancora segnalare miglioramenti nella erogazione dei servizi, a cui oggi contribuiscono oltre alla ristrettezza delle risorse, la mancanza di personale ed in particolare la vicenda assurda (a livello italiano) della carenza di professione medica e di specializzazioni adeguate.
Sull’altra vicenda c’è stato il quasi definitivo affossamento delle UTI, il tentativo di rianimare i morenti Comuni direi con una “terapia del dolore” che non incide sulla loro sostanziale incapacità finanziaria, organizzativa e gestionale di costituire il sistema di base del settore pubblico, e fantasticando su una nuova ripartizione territoriale di enti intermedi costituito sostanzialmente dalle stesse Provincie del passato. Non c’è stata alcuna capacità di interpretare il disagio dei diversi territori che compongono la regione verso un nuovo patto che dia ad ognuno la capacità di interpretare la propria evoluzione e le potenzialità di futuro. L’impressione che se ne ricava è quella della volontà di gestire i rapporti tra centro e periferia con la logica delle clientele, secondo ispirazioni che superano di gran lunga la stagione d’oro della DC degli anni 60 e 70. Per la felicità dei mestatori professionisti alla Agrusti.
Questa valutazione nasce anche dalla interpretazione della infinità di norme approvate da una successione impressionante di leggi omnibus, dove sia la Giunta che i consiglieri di maggioranza hanno potuto sfogare la loro libidine di protagonismo e dimostrare ai propri elettori di contare davvero. Gran parte di queste scelte non hanno prodotto grossi danni, spesso si sono risolti i dubbi della burocrazia nel firmare atti amministrativi, gli ungulati non si sono lamentati di poter essere cacciati con l’arco, ma alcune norme in materia urbanistica ed edilizia, anche devastando le competenze dei Comuni, gridano vendetta al cielo.
Lo stato della democrazia e la frenesia comunicativa
In un recente saggio Levitsky e Ziblatt si domandano “Come muoiono le democrazie” e analizzano in forma divulgativa quali comportamenti del sistema politico istituzionale fanno scivolare una realtà formalmente democratica in qualcosa di altro. Pian piano vengono infrante molte delle regole scritte e non scritte di un modello consolidato nel tempo, spesso con il consenso della maggioranza. Diventa decisivo il conservare alcuni elementi fondamentali che per gli autori, nell’orizzonte della democrazia liberale, sono la tolleranza e la temperanza. Le forze politiche sono tra loro avversarie ma non nemiche e ogni azione non va portata all’estremo, anche se in apparenza giuridicamente legittima, se fa saltare alcuni equilibri condivisi che sono il sale della democrazia.
Forse in Regione non siamo ancora al livello del bullismo politico e comunicativo che caratterizza l’attuale confronto tra gli irrefrenabili Dioscuri vicepresidenti e il “popolo italiano” ma siamo sulla buona strada e molti episodi, sia relativamente alle scelte effettuate in campo amministrativo che proprio in termini di concezione dello scontro politico lo confermano. Vincere le elezioni significa uccidere il nemico e portare via tutto quello che c’è sul tavolo. Anche la cultura, la scienza e possibilmente la religione.
A questa situazione soggettiva se ne accompagna una strutturale che proprio nella accentuata debolezza degli enti locali e territoriali vede sempre più limitarsi la capacità di dialogo e confronto costruttivo tra i cittadini per una cosciente partecipazione alle scelte. E in questo, la continua perdita di capacità dei soggetti intermedi di costruire momenti organizzati che in qualche modo sappiano limitare il puro rapporto consensuale tra leader e “popolo” fa la sua parte e favorisce sempre più una attività di “governo” senza paracadute e piena di certezze indiscutibili.
Per una Regione come il F-VG che costitutivamente vive dell’amalgama tra differenze territoriali, linguistiche e culturali, la mancanza di voglia di ricostruzione di un modello democratico reale ed il scivolamento nella china della semplificazione, può esserne l’elemento distruttivo peggiore.
Il Friuli e Trieste hanno bisogno di relazioni reali ben diverse da quelle che la comunicazione “main stream” produce e deve potersi liberare dalla deriva in cui oggi lo Stato italiano sembra essersi collocato.
Giorgio Cavallo