26 Aprile 1986: 33 anni fa Chernobyl, ricordare per non dimenticare
Il 26 aprile del 1986, durante un test di sicurezza, il reattore numero 4 della centrale – situata in Ucraina – esplose. La nube radioattiva sprigionata dall’incidente invase diverse aree dell’Europa. I Paesi più colpiti furono l’Ucraina, la Russia ma soprattutto la Bielorussia, dove si riversò circa il 70% delle sostanze radioattive espulse nell’atmosfera. La gara di solidarietà Le conseguenze di quel disastro nucleare scossero il mondo e innescarono una gara di solidarietà, soprattutto in favore dei bambini, i più esposti agli effetti nocivi delle radiazioni. Nacquero così – nei primi anni ’90, in Italia e in altri Paesi – i cosiddetti “soggiorni di risanamento” presso famiglie disposte a ospitare temporaneamente i minori provenienti dalle zone contaminate. Ma torniamo al maledetto 26 aprile 1986, da quel giorno il nome di Chernobyl finì di essere un puntino sconosciuto sulle care geografiche e divenne famoso in tutto il mondo. Nella centrale elettronucleare, si verificarono le due esplosioni successive che provocarono l’immediata morte di 31 persone e fecero scoperchiare il tetto disperdendo nell’atmosfera grandi quantità di vapore contenente le particelle radioattive rendendo mai come allora chiara la pericolosità delle centrali nucleari. Successe paradossalmente durante l’esecuzione di un test di “sicurezza”, la simulazione di guasto al sistema di raffreddamento del reattore numero 4, per un errore degli operatori, guidati dall’ingegnere Valerij Chodemčuk, le barre di uranio del nocciolo del reattore si surriscaldarono per davvero (raggiungendo un picco di valore pari a 100 volte quello stabilito) provocando la fusione del suo nucleo. L’improvvisa ondata di energia provò un’esplosione con rilascio di radioattività duecento volte superiore alle bombe di Hiroshima e Nagasaki messe assieme.
Si levò in pochi minuti e per giorni un’immensa nube, composta da tonnellate di materiale radioattivo che il vento portò in tutta Europa e raggiunse il Mediterraneo nelle successive due settimane, riportando a terra con la pioggia le particelle radioattive. Ma dramma nel dramma per molti giorni le autorità sovietiche negarono la portata della catastrofe, anche se un laboratorio di ricerche nucleari in Danimarca e i satelliti spia statunitensi avevano annunciato, già il 28 aprile, un «incidente di enorme portata». Dopo 36 ore dall’incidente iniziò l’evacuazione dell’area di Chernobyl della popolazione residente. Circa 350.000 persone furono portate via dalla città, da Pripjat’ e dalle campagne adiacenti. In una zona di 30 chilometri quadrati di diametro non rimase più nessuno. Ma ormai il danno era stato irrimediabilmente fatto: migliaia di persone, profondamente contaminate, avevano già le cellule impazzite, il sistema genetico in subbuglio, la tiroide compromessa. I feti delle donne incinte non avevano alcuna speranza, così come molti bambini. Ma nel momento dell’incidente i soccorsi mostrarono da subito impreparazione e improvvisazione, nessun valido piano di prevenzione era stato studiato e i pompieri a disposizione della Centrale erano solo 14. Si gettarono letteralmente nell’inferno dell’incendio senza alcuna tuta di protezione le radiazioni li uccisero in pochi minuti. Cinque ore dopo arrivarono i rinforzi: 250 uomini disponibili, 69 operativi, moriranno tutti. L’incendio continuò ad autoalimentarsi e, il 4 maggio, il nucleo del reattore, ormai completamente fuso, iniziò a sprofondare nella terra, rischiando di far entrare in contatto la grafite in fusione con la falda acquifera sottostante e provocare un’esplosione termonucleare. Per evitare questo, 400 minatori della regione del Donets’k, anch’essi inconsapevolmente votati alla morte, furono costretti a scavare sotto la Centrale un tunnel per portare dell’azoto liquido che, dopo l’evaporazione, potesse saldare la terra con il cemento e formare una sorta di cuscino per isolare il reattore. Tornavano su, dopo turni di tre ore di immersione in una stretta galleria, privi delle maschere e a torso nudo per il caldo irrespirabile, investiti da livelli di radiazione impensabili, e si sentivano subito male. Intanto dall’alto, 1.800 operai ed elicotteristi ricoprirono il nocciolo fuso, con sabbia a base di boro, silicati, dolomia e piombo, finché l’emissione di vapore radioattivo cessò sabato 10 maggio. Secondo le testimonianze dei sopravvissuti i piloti degli elicotteri si alzavano in volo con turni di quattro o cinque voli nelle 24 ore, stazionavano sopra la centrale a un’altezza di una trentina di metri 30 con una temperatura che nella cabina che raggiungeva i 60 gradi investiti da una quantità di radiazioni enorme. Secondo calcoli credibili la radioattività raggiungeva i 1.800 röntgen per ora (50 röntgen è la dose mortale per un uomo). Poi il reattore distrutto fu, nel mese di novembre, ricoperto da una struttura di contenimento in Bario, chiamata «Sarcofago»: una sorta di a piramide di cemento progettata per resistere 30 anni ma che dopo meno di dieci anni mostrò segni di cedimento con lesioni e fratture per 250 metri quadrati.