9 maggio 1978: giornata maledetta dove si palesò con i delitti Moro e Impastato, la realtà di una democrazia fragile ostaggio di mafie e ingerenze straniere
Il 9 Maggio del 1978, assassinio “brigatista” di Aldo Moro e “suicidio” mafioso di Peppino Impastato. Una data scolpita in maniera indelebile nella memoria di molti italiani, sicuramente in quelli che all’epoca avevano una età che gli consentiva di capire e sapere. Come vedremo questi due concetti non erano all’epoca solo legati all’età anagrafica, ma ai meccanismi di informazione che allora, esattamente come oggi, veicolavano ed influenzano la conoscenza dei fatti e la loro interpretazione. Ovviamente oggi la verità delle cose si nasconde non più, o meglio non solo, con omissioni e depistaggi, ma anche attraverso l’overdose quotidiana di “comunicazione” che investe gli occhi, le orecchie e la mente degli italiani che spesso non sono in grado di raccapezzarsi fra notizie false e vere, almeno finchè non si comprenderà che anche in internet la linea guida deve essere l’autorevolezza e anche il fatto che finalmente si risponda di quanto si scrive. Ma torniamo al 9 maggio 1978. In quel giorno da ventenne studente impegnato nei movimenti studenteschi ricordo di aver sentito della notizia della morte di Aldo Moro alla radiolina a “transistor” che era l’antesignana mono-direzionale dello smartphone. Con quell’oggetto a “transistor” in genere si ascoltavano i giornali radio Rai e poche informazioni “alternative” dalle prima radio “libere” nate a macchia di leopardo da un paio di anni. Mentre l’emittenza televisiva privata era ancora “locale”. In sostanza si pendeva dalle labbra del “servizio pubblico”, i radiogiornali, i telegiornali serali diffusi dai due canali Rai televisivi, due perchè Rai 3 venne avviata dal 1979. Per questo motivo i giornali in carta stampata avevano un ruolo importantissimo, il pluralismo informativo passava solo per le differenti testate. Per questo motivo mentre la morte di Moro il cui rapimento era costantemente prima notizia dal giorno del suo rapimento, della vicenda di Peppino impastato, anche a sinistra, si seppe in ritardo, giorni dopo ed in maniera frammentaria e imprecisa, dato che la tesi imperante dei mass media di stato, creata ad arte con imponente depistaggio, parlava di “suicidio”. Ma le due vicende non sono unite solo dalla data, ma come vedremo, anche da un filo inquietante, da quelle connessioni che solo oggi vedono una chiarezza, quell’intersecarsi fra “servizi” “mafia” e “trattative” ancora sotto i riflettori della giustizia.
Come è noto il corpo di Aldo Moro fu ritrovato, dopo 55 giorni dal rapimento e successiva “detenzione” nella cosiddetta ‘prigione del popolo’, nel bagagliaio di una Renault 4 rossa abbandonata. Abbandonata in luogo simbolico, a metà strada tra piazza del Gesù, dove c’era la sede nazionale della Dc, e via delle Botteghe Oscure, quartier generale del Partito comunista. Una vicenda culminata nell’esecuzione che già all’epoca a molti osservatori sembrò illogica rispetto alle dinamiche ideologiche con le quali si erano mosse le Brigate Rosse che, dall’omicidio di Aldo Moro, non ebbero molto da guadagnare, anzi. Si potrebbe archiviare il caso, come fatto da molti, come una decisione strategicamente sbagliata presa da persone “sbagliate” in crisi carismatica. Ma la tesi che ormai sembra decisamente più probabile è che nell’operazione Moro e nel suo epilogo, le Br siano state comparse o se preferite i classici “utili idioti”, manovrati da poteri esterni ed interni alla “nazione”. Per descrivere queste vicende sono stati utilizzati fiumi di inchiostro, ma in realtà ancora c’è ancora molto da sapere e da riflettere, a patto di uscire da una lettura dei fatti così come c’è stata propinata e che, spesso, ancora oggi c’è chi cerca di propinare. Aldo Moro in realtà venne ucciso perchè era il politico scomodo, da eliminare, scomodo soprattutto all’Italia “atlantica” perchè da visionario della politica Aldo Moro consumò delle rotture senza precedenti con il suo stesso mondo culturale e politico anche su scala internazionale. Aldo Moro comprese infatti che in Italia non poteva più vigere lo schematismo post-bellico di Jalta, dove i vincitori della seconda guerra mondiale, divisero in due le sfere di influenza del mondo: una con ai vertici l’URSS, l’altra gli USA. L’Italia ricadeva nella sfera occidentale e nonostante anche il Pci di Berlinguer avesse chiaramente espresso la sua accondiscendenza atlantica, non si poteva consentire l’accesso al governo di un partito comunista, per quanto democratico e radicato nella storia e cultura antifascista e anti-totalitaria del proprio Paese. La democrazia bloccata era un male e Moro capì che era giunto il momento di sbloccarla. Non mancarono fin dai primi momenti le minacce che Moro avvertì chiaramente nel suo viaggio negli Stati Uniti di alcuni anni prima. Per semplificare l’idea del “compromesso storico” ne decretò la fine. Questo approccio di superamento della guerra fredda interna in presenza di quella internazionale, gli costò l’isolamento e la sentenza di morte, le Br furono solo il boia che eseguì una condanna scritta altrove, forse all’insaputa dei più, ma sicuramente a conoscenza di qualcuno fin dal momento del rapimento, azione “militare” che aveva degli osservatori e forse degli “operatori” terzi. Insomma i fatti parlano chiaro, Aldo Moro fu vittima di intrighi di potere restati invisibili e sfuggenti per anni, ma a parlare è la strana evoluzione di una condanna annunciata, ipocrita farsa sul pugno duro dello Stato contro i terroristi, nemico manovrato e pedina di un sistema più grande delle dinamiche dell’italietta politica degli anni 70.
Così mentre l’Italia era sotto choc per il ritrovamento a Roma del cadavere di Moro, in quel 9 Maggio maledetto, a Cinisi (in Sicilia), nello stesso giorno, Peppino Impastato moriva a 30 anni, dilaniato dall’esplosione di una carica di tritolo posta sotto il suo corpo adagiato sui binari della ferrovia. Una dinamica di “suicidio” alla quale non si poteva credere, ma purtroppo per i carabinieri quella fu la prima “verità. Due storie quella di Moro e di Impastato che si intrecciano in un triste destino unito dal fattore comune di essere messi contro dei poteri che forse avevano sottovalutato nella loro ferocia. La storia di Peppino è davvero straordinaria, in una Sicilia che la storia successiva ci farà vedere teatro di indicibili accordi e terrificanti stragi di mafia, lui ai tempi fu uno dei pochi a denunciare le realtà mafiose che in molti ancora fingevano di non vedere. Ma c’è di più, Peppino aveva consapevolezza di quanto raccontava perché lui stesso proveniva da una famiglia affiliata alla criminalità organizzata.
Lo stesso papà Luigi era un amico di Gaetano Badalamenti, il capomafia della zona che, come raccontava lo stesso Peppino dai microfoni della sua emittente libera Radio Out, abitava «a cento passi» da casa sua. Nonostante questo ebbe il coraggio di fare una scelta differente.
Le indagini negli anni, nonostante depistaggi e prove false, alla fine hanno individuato mandanti ed esecutori della sua fine, a dare l’ordine di uccidere il giornalista di Cinisi fu il capo indiscusso di Cosa Nostra negli anni Settanta, Gaetano Badalamenti. Motivo di tanto furore nei confronti del giovane attivista il fatto che Badalamenti era il bersaglio preferito di Peppino in “Onda Pazza”, il programma di punta di Radio Aut. Il giornalista, attivista e membro di Democrazia Proletaria, era noto per le sue denunce contro le attività di Cosa Nostra. Insomma Peppino ucciso barbaramente per aver detto, scritto, urlato e sbeffeggiato la realtà dei mafiosi rompendo quel velo di silenzio e omertà che a quel tempo vigeva in Sicilia, come oggi vige nelle nostre regioni del Nord dove si racconta che la mafia, qui, non esiste.
Fabio Folisi