Aliquota globale sulle multinazionali, in realtà intesa al ribasso venduta come grande successo
E’ stato definito un “accordo storico” dai leader europei e purtroppo dalla stampa mainstream completamente appiattita sulle posizioni governative l’intesa di principio, uscita dal G7 finanziario di Londra- L’idea di applicare un’aliquota globale minima di almeno il 15% su tutte le imprese multinazionali e di tassare il 20% della quota eccedente il 10% dei profitti nei Paesi in cui vengono realizzati sembrerebbe l’uovo di Colombo ed invece è uno specchietto per le allodole che fra l’altro, in Italia è utilizzato anche per sponsorizzare in maniera autoreferenziale il ruolo avuto dal nostro Presidente del Consiglio, Mario Draghi, al quale viene attribuito il successo grazie alla sua autorevolezza. Ma si tratta davvero, come dice Draghi, di “un passo verso una maggiore equità e giustizia sociale per i cittadini”. Vediamolo nel particolare questo risultato, un primo indicatore ce lo fornisce il fatto di come il provvedimento del G7 finanziario sia stato in realtà accolto con un plauso da Google, Amazon e Facebook, ovvero da tre delle principali multinazionali che dovrebbero subire la svolta imposta dai Governi in direzione della giustizia fiscale che avevano temuto l peggio e che invece ne escono quasi indenni. E ne è chiara la ragione: l’aliquota del 15% è solo leggermente superiore a quella che oggi pagano le multinazionali in paesi a fiscalità agevolata, come l’Irlanda (12,5%), ma ovviamente molto inferiore a quella che le multinazionali pagano in tutti gli altri Paesi (con una media impositiva del 26%) almeno in quelli che sono stati in grado di imporsi.
Il risultato dell’intesa non è quello di vanificare l’elusione fiscale ma di legalizzarla trasformando l’intero pianeta in un paradiso fiscale per le multinazionali.
L’unico risulto che si potrebbe avere da questo meccanismo è quello di limitare il potere di attrattività fiscale di alcuni paesi infatti anche se nessun paese europeo rientra nella cosiddetta “lista nera” dei paradisi fiscali adottata dal Consiglio d’Europa, non c’è alcun dubbio che alcuni Stati membri della UE svolgano un ruolo centrale nel trasferimento di capitali verso giurisdizioni a fiscalità privilegiata. Prendiamo i “frugali” Olanda e Lussemburgo come esempio, nonostante si tratti di due nazioni piccole per dimensioni economiche e demografiche, Lussemburgo e Olanda attraggono enormi investimenti diretti e sono sedi privilegiate di aziende che operano in realtà sull’intera Europa se non globalmente. Nel complesso, i livelli degli investimenti esteri nei due paesi europei sono di poco inferiori a quelli degli Stati Uniti, la più grande economia al mondo.
Per ridurre il carico fiscale, le multinazionali utilizzano diverse tecniche. Quella più semplice consiste nella creazione di una società controllata con sede in un paradiso fiscale, in cui spostare gli utili conseguiti dalle altre società del gruppo. Un’altra tecnica è quella del transfer pricing, che consiste nell’effettuare transazioni (prestiti, cessioni di marchi e brevetti o servizi) tra società che fanno capo a una controllante che ha sede in un paradiso fiscale. Tutto questo è confermato anche dalla “Relazione sui reati fiscali e l’evasione” del Parlamento Europeo, che evidenzia come l’elevato livello di investimenti esteri rispetto al Pil in Belgio, Cipro, Ungheria, Irlanda, Lussemburgo, Malta e Olanda sia solo in parte spiegato da attività economiche effettive ma in realtà sia prodotto, almeno in parte da investimenti esteri in transito destinati a sussidiarie o “società a destinazione specifica”. Si tratta di società che sono solo entità giuridiche senza consistenza fisica e che non svolgono alcuna attività economica reale, costituite per minimizzare il carico effettivo globale delle multinazionali.
Fonte dati Ag. Pressenza