Caporalato globalizzato a nordest, nuova storia di padroni e di padrini ma del terzo millennio

Il caporalato è un affare di padroni e di padrini, di sfruttamento dei deboli e marginalità, ma anche di sfida alla Stato e alle sue regole fiscali e contributive. Bisognerebbe partire sempre da questa constatazione, perchè se è vero che esistono caporali è altrettanto vero che esistono imprese che affidano la gestione della forza lavoro tappandosi naso e orecchie e facendo finta di non sapere nulla della filiera perversa che porta ad abbassare in maniera conveniente il costo del lavoro tanto da drogare anche il mercato delle gare d’appalto in una  sorta di effetto domino del malaffare.
Con l’operazione denominata ‘Faber dacicus’ le Fiamme gialle di Pordenone hanno portato alla scoperta l’ennesima ignobile storia di sfruttamento nel nordest che per anni si era assurto a paese di bengodi dell’etica d’impresa sputando sentenze su un sud che il caporalato lo vive in continuità da un secolo, con la differenza che nel ricco nordest il fenomeno è passato da fenomeno rurale a pianificazione industriale. Così non meraviglia che una frode milionaria ai danni dell’erario basata sul fenomeno del ‘caporalato’ veda coinvolti aziende delle province di Venezia, Treviso, Gorizia e Udine e oltre 400 lavoratori irregolari. Volendo tradurre in cifre, gli oltre 400 lavoratori irregolari corrispondono a 5,3 milioni di euro di redditi sottratti a tassazione e contributi e ritenute non versate per 3,1 milioni di euro. Ma quello che è più grave è che si è dinnanzi ad una storia che vede lo sfruttamento del lavoro. Sono sette i cittadini rumeni indagati per reati tributari, mentre cinque risultano le società esterovestite individuate dalla guardia di Finanza con la Procura di Pordenone ha disposto il sequestro di 840.000 euro. Secondo i risultati di indagine durate quasi due anni e condotte dal Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria della Guardia di Finanza di Pordenone che ha dato avvio all’attività investigativa partendo da un’analisi di contesto nella Provincia di Pordenone relativa alla presenza diffusa di società estere operanti nella fornitura di manodopera a favore di terze aziende in altre provincie, tra cui i cantieri navali di Monfalcone e Venezia. Sono state così individuate diverse società di diritto rumeno tutte aventi in comune formali sedi estere, circostanza per la quale non ottemperavano a qualsivoglia obbligo dichiarativo, sia ai fini fiscali che previdenziali. Tali società sono state oggetto di segnalazioni antiriciclaggio, per cosiddette “operazioni sospette”, in relazione ad ingenti transazioni in denaro contante, poi utilizzato per pagamenti “fuori busta” ai lavoratori. Non solo, si è scandagliata l’operatività nel settore della somministrazione di manodopera specializzata, costituita perlopiù da cittadini rumeni, estemporaneamente dimoranti in Italia e formalmente inquadrati con contratti di diritto estero ma operanti in Italia. Sulla base di tali evidenze informative la Procura della Repubblica di Pordenone ha delegato alle indagini le Fiamme Gialle, indagini, al termine delle quali è emersa la localizzazione fittizia all’estero delle aziende, di fatto amministrate a Pordenone e le cui attività imprenditoriali venivano esercitate esclusivamente nel territorio nazionale. Una esterovestizione in piena regola, un sistema evasivo con il quale le attività di impresa condotte in Italia dove si sarebbero dovuti pagare tributi e contributi previdenziali, venivano fittiziamente collocate all’estero, in Romania, dove per altro è stato appurato tramite rogatoria, tali società non dichiaravano i redditi conseguiti. In sostanza non pagavano da nessuna parte.
Gli oltre 400 lavoratori gestiti dalle società, distaccati presso i cantieri e gli stabilimenti di aziende italiane attive nel settore della metalmeccanica venivano assunti con contratti di diritto rumeno, apparentemente con la previsione di retribuzioni lorde di poche centinaia di euro (e con conseguenti contributi previdenziali, previsti dalla normativa rumena, di pochi euro mensili), mentre, in realtà, gli stessi venivano retribuiti con paga oraria tra i 6 e i 9 euro, arrivando a percepire retribuzioni mensili tra i 1.400 e i 2.000 euro, quasi in linea con i contratti nazionali, garantendo così l’omertà delle stesse vittime. Soldi che venivano consegnati in contanti, “a nero”, omettendo però di pagare il fisco e i contributi. Sono state contestate ai vari soggetti somministrazioni illecite di manodopera, il cosiddetto “caporalato”, connesse ad appalti di servizi fasulli aventi come scopo finale il trasferimento surrettizio, in capo a un soggetto diverso dall’effettivo datore di lavoro, di tutte le obbligazioni nascenti dal rapporto di lavoro subordinato, con particolare riferimento a quelle relative al versamento dei contributi, oltre che delle ritenute fiscali sui redditi da lavoro dipendente.
Tutte condotte illecite che sono realizzabili attraverso uno schema che vede l’interposizione, tra il reale datore di lavoro (utilizzatore) e il lavoratore dipendente, di un terzo soggetto (somministratore), che assolve solo “cartolarmente” alle funzioni proprie del datore di lavoro e che non possiede i requisiti previsti per l’esercizio legittimo dell’attività delle agenzie di somministrazione.
Il sistema di “delocalizzazione illecita della manodopera” consente, quindi, alle imprese utilizzatrici nonché committenti di acquisire forza lavoro formalmente regolare a prezzi molto vantaggiosi (effetto dumping), ricorrendo a società estere, come detto caratterizzate dall’assenza di vere strutture organizzative e che sistematicamente non rispettano gli obblighi dichiarativi e di versamento delle imposte e dei contributi. A questo punto sono scattati anche accertamenti sulle società italiane che hanno, utilizzato la forza lavoro mediante “strumentali” contratti formalizzati per solo apparenti “prestazioni di servizio”.

Volantino proposto nel 2015 da un’agenzia interinale romena nel modenese dal sito  https:// www.connessioniprecarie.org/2015/04/07/spostamenti-progressivi-dello-sfruttamento-il-contratto-rumeno-e-il-contratto-romano/

In realtà sulla carta oggi ci sono strumenti nuovi in mano alla giustizia ma che evidentemente non preoccupano tanto gli imprenditori italiani che si avvalgono di questa manodopera in “affitto” e subaffitto. Infatti insieme alla modifica dell’art. 603bis codice panale, dove è disciplinato il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro il legislatore ha contemporaneamente modificato anche l’art. 25quinquies del D.lgs. 231/2001, estendendo la responsabilità degli enti anche alla nuova ipotesi di reato. In sostanza rispetto ad un passato recente, la L. 199/2016 semplifica la c.d. “fattispecie base” del reato di caporalato, per cui sarà, o dovrebbe essere punito con la reclusione da uno a sei anni, oltre alla multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore, chiunque recluti manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento. E ciò a prescindere da come sia organizzata l’attività di reclutamento e intermediazione. Per la prima volta, in sostanza, il legislatore ha deciso di applicare la stessa sanzione della reclusione e della multa, prevista per chi recluta, anche al datore di lavoro, nel caso in cui questi utilizzi, assuma o impieghi lavoratori in condizioni di sfruttamento, approfittando del loro stato di bisogno. Sia per il datore di lavoro che per l’intermediario si può, inoltre, configurare un reato aggravato, con innalzamento sia della pena detentiva (da cinque a otto anni) che pecuniaria (da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato), se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia. Tutto bene quindi? Non proprio, infatti il caso messo inluce a Pordenone dimostra come il sistema architettato cerchi di allontanare, attraverso i vari passaggi, dal fruitore finale della forza lavoro le responsabilità, insomma il rischio concreto che padroni e padrini non paghino e che i “caporali” siano di giornata, quindi facilmente sostituibili.

 

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