Forni di Sopra tra passato e futuro: Idee per un magazzino di cianfrusaglie

Berlusconi da acquirente compulsivo di televendite ha accumulato capannoni di paccottiglia spacciata con promesse d’arte. E magari qualcosa, in questa contemporaneità, potrebbe rivelarsi tale.
Vivo da alcuni anni, almeno parzialmente, in una valle montana dal glorioso passato, quella di Forni (di Sopra per la precisione), ed ho pian piano cominciato a farmi una idea dell’accumulo urbanistico che qui si è depositato. Il paragone con i magazzini di Berlusconi è del tutto improprio, non tanto per il risultato finale quanto per il punto storico di partenza. Se infatti, prima dell’attuale caos, il contenitore lombardo era uno spazio vuoto, la valle dei Forni Savorgnani, nel suo spazio di organizzazione di comunità al servizio di una economia silvo-pastorale, era uno scrigno prezioso di spazi di vita e di architetture al servizio di un rapporto tra uomo e territorio. Povero certo, secondo i nostri canoni attuali, ma profondamente vissuto e ricco di emergenze capaci di interpretare e superare le difficoltà che la storia ha continuamente proposto.
Poi venne il turismo, con un lento e direi duraturo cammino, che ha contrastato la disillusione e gli errori di interpretazione dell’economia silvo-forestale ma, senza riuscire a contrastare una decadenza demografica inarrestabile, ha affastellato una serie di proposte accumulandole l’una sull’altra rendendo di fatto illeggibile una identità di paesaggio e costringendo i sopravvissuti a rincorrere quanto le tendenze di cronaca di volta in volta proponevano.
Così da luogo di transumanza estiva di piccole borghesie udinesi e triestine si è passati ad un “trionfo” di ville quali seconde case, ad impianti di risalita per sempre più improbabili sport invernali, a proposte sportive di accompagnamento ad una sostanziale e piacevole RSA diffusa con possibili passeggiate alla ricerca di erbe e funghi, per essere alfine scoperto e riavvicinato da orsi e lupi alla ricerca di adatte “location”. Peraltro così riproponendo l’importanza della storica funzione rurale.
Gli amministratori di questa marginale valle proiettata verso un ben più solido Cadore si arrabattano nel tentare di trovare spazi di cosiddetto “sviluppo”. I lavori ed i soldi (pubblici) non mancano pur con invidie per lo “scippo” friulano di Sappada e la fedeltà al potere dimostrato nelle varie consultazioni elettorali è incrollabile. Ma non se ne ricava molto. Grosso modo 500 posti letto in alberghi da tempo esistenti risultano chiusi, le ville si aprono per quindici giorni all’anno, e malgrado il prestigio di un brand come “Dolomiti Unesco” sia del tutto meritato, quasi nessuno se ne accorge. E residenze, anche di qualità, in grado di ospitare almeno 3000 persone, normalmente ne accudiscono poco più di 600.
Eppure, diversamente dal magazzino di Arcore, qui alcuni tesori non mancano e probabilmente aspettano soltanto di essere ordinati in maniera intelligente. Che lo possano fare i “neanderthal” che hanno frequentato la valle già decine di migliaia di anni fa non mi pare probabile, ma un po’ della saggezza montana accumulata negli ultimi secoli potrebbe essere utile. Magari evitando di farsi prendere in giro perfino da un Salvini che oltre al ponte sullo stretto di Messina non se l’è sentita di promettere anche il traforo della Mauria.
Una semplice pausa di riflessione su un percorso di rilettura urbanistica alla ricerca di una semplificazione degli accumuli superflui, ricomponendo magari la qualità degli spazi di aggregazione e lo strapotere del motore endotermico, una cura dei molti particolari di qualità che rappresentano lo spirito del luogo, potrebbe non costare molto e dare ottimi risultati. E forse oggi anche una prospettiva che vada oltre il turismo, senza trascurare una nuova resilienza agricola e silvo-pastorale, potrebbe, in tempi di cambiamento climatico aprire nuove dimensioni.

Giorgio Cavallo.