Fra percezione e realtà della violenza giovanile. Bene la presenza dello Stato, ma serve superare diseguaglianze e povertà
La violenza giovanile è l’indicatore che forse più di altri riassume e rivela le contraddizioni dei tempi che viviamo. Il fenomeno chiama in causa l’aumento della povertà; la crescita delle disuguaglianze che ha penalizzato l’ascensore sociale, la crisi dei sistemi formativi ed il decadimento della politica, vista ormai come incapace di mettere al centro la qualità della vita dei cittadini e il benessere dei rapporti umani, nel rispetto del territorio e delle sue risorse naturali. Intendiamoci non si tratta di giustificare, ma di capire per agire non solo in termini securitari, come pare di moda e non solo da parte della destra, che vorrebbe risolvere tutto a colpi di manganello. E’ innegabile l’esistenza di recenti spiacevoli episodi di cronaca, non solo a Udine come qualcuno in malafede vorrebbe far credere legandoli ad un presunto “lassismo” del centrosinistra relativo alla presenza di minori stranieri non accompagnati, ma anche in altre parti del Fvg da Pordenone a Trieste, episodi che vedono protagonisti certo anche ragazzi stranieri in accoglienza, ma anche italiani. In sostanza il fenomeno non è etnico ma soprattutto generazionale. Purtroppo però gran parte del clamore la fanno gli agitatori di professione, soggetti in malafede che, con parte della stampa correa nell’alzare il livello della tensione e della paura alal ricerca di un clamore che faccia vendere copie, agitano lo spauracchio addirittura della guerra di religione o del pericolo di sostituzione etnica amplificando in questo modo la percezione di insicurezza nelle persone più fragili e facilmente manipolabili. Intendiamoci non è che fenomeni di violenza siano assenti, spesso non serve essere aggrediti per provare paura e a questo bisogna dare risposta con una maggiore presenza dello Stato sul territorio, ma senza alimentare allarmismi e caccia alle streghe o al diverso. Fra l’altro, a dimostrazione che i violenti non hanno particolari nazionalità o etnie, gli ultimi episodi più odiosi, dalla morte dell’imprenditore giapponese Tominaga colpito da un italianissimo cittadino del vicino Veneto, all’aggressione avvenuta la sera del 27 giugno scorso che ha avuto un epilogo venerdì scorso 2 agosto, si dimostra che la violenza non ha nazionalità ma cause sociali. L’ultimo episodio cui facciamo riferimento è la notizia dell’esecuzione all’ordinanza di applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari da parte della Squadra Mobile della Questura di Udine a carico di due ragazzi italiani di 18 e 19 anni, fortemente indiziati di essere i responsabili della rapina a danno di un dipendente di un locale del centro di Udine. Secondo quanto ricostruito dagli investigatori, intorno alle 23.20 del 27 giugno scorso, un cameriere di una pizzeria di via Anton Lazzaro Moro, mentre stava rincasando al termine del lavoro con una pizza nel cartone da asporto come cena, è stato avvicinato in strada da tre ragazzi. Uno di loro, strappatogli il cartone della pizza di mano, lo ha colpito al volto con un violento pugno, facendolo cadere. L’uomo una volta a terra era poi stato vigliaccamente percosso con calci e pugni anche da un altro componente del gruppetto, mentre il terzo pare non abbia partecipato all’azione violenta, senza tuttavia contrastare l’azione dei due amici. Solo ripresosi dopo l’aggressione la vittima si era accorta di essere stato anche derubato del portafoglio, contenente denaro e documenti. Alla scena aveva assistito una automobilista che transitava in zona e che, mentre i tre malviventi si allontanavano, si era fermata per soccorrere il malcapitato, successivamente curato per le lesioni al pronto soccorso di Udine. Sul luogo dell’aggressione era arrivata una Volante della Questura. Gli agenti dopo aver raccolto la testimonianza della testimone hanno analizzato con un lungo lavoro di analisi nei giorni successivi, le immagini delle telecamere cittadine e private della zona riuscendo così ad identificare i tre ragazzi, tutti cittadini italiani. Da registrare che i soliti noti, sempre pronti a gridare allo scandalo e ad additare l’invasore come causa di ogni male, non hanno proferito parola sull’episodio visto che i protagonisti erano friulani. Ma è l’ultimo caso in ordine di tempo che dovrebbe fare riflettere, teatro non il capoluogo friulano ma Cividale, dove due giorni fa due gruppi di giovani hanno dato vita ad una sorta di resa dei conti tra minorenni stranieri e ragazzi friulani. Una mega rissa con scene di violenza, per altro documentate da video girati e trasmessi sui social network, che hanno preoccupato i cittadini di Cividale. La dinamica della rissa, probabilmente avvenuta con una sfida lanciata via social, è ancora oggetto di indagini. Per ora sono stati denunciati in stato di libertà per rissa: 6 minori stranieri che alloggiano nel collegio annesso al Centro di formazione professionale Civiform e otto ragazzi friulani tra i 18 e i 26 anni, residenti tra Cividale, Drenchia, Buttrio, San Leonardo e Udine che, secondo gli investigatori, sarebbero arrivati nella cittadina ducale per una sorta di spedizione punitiva. Insomma è innegabile che il fenomeno che potremmo esemplificare con la brutta definizione di baby gang esiste, come però esiste la delinquenza ad ogni età, ma è evidente che quando i protagonisti sono adolescenti o poco più, le vicende impressionano. Quindi a fronte degli ultimi episodi di cronaca, sarebbe necessaria una riflessione da parte della comunità su tali forme di prevaricazione e violenza giovanile, che talvolta possono portare a una devianza vera e propria. Quello che dovrebbe preoccupare maggiormente è l’utilizzo gratuito della forza come manifestazione comportamentale, diventata normale per alcuni giovani, con l’aggiunta di una spettacolarizzazione di essa all’interno dei canali social che in quasi tutti gli episodi di violenza, compreso il bullismo, diventano specchio e in qualche caso motivo stesso delle aggressioni. Si tratta ovviamente di numeri piccoli, considerando la generalità della gioventù, ma che fanno “clamore”, secondo il principio che fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce.
Per contrastare un fenomeno bisogna innanzitutto capirne la genesi, è prassi comune spiegare l’aumento dei tassi di violenza con la solita (e comoda) crisi dei valori, come quelli che riguardano la famiglia e i sistemi formativi. Ma in realtà è il modello di società che viene proposto che è malato, con una drammatica caduta di riferimenti esistenziali ai quali ispirarsi e il rapido cambiamento dei modi di pensare e di vivere. Il tutto si è determinato negli ultimi due decenni con l’affermarsi di modelli di “successo” legati a disvalori che hanno mandato in soffitta ogni etica e morale, sacrificando sull’altare del denaro e dell’apparire che in genere si accompagna all’effimero successo. Successo fra l’altro che non è stabile e solido, perché i giovani si scontrano prestissimo con la realtà e con l’impossibilità di raggiungere gli obiettivi, dato che esiste una precarietà anche dei parametri di misura e riferimento entro cui i giovani crescono. Diventa un vortice tremendo che li travolge. In sostanza viene presto a mancare uno schema educativo stabile, nel tempo e nello spazio, generando così confusione soprattutto in menti che non hanno ancora raggiunto l’equilibrio esistenziale. Così la competitività e la ricchezza e la narrazione mediatica e politica che li accompagna, vengono assunte a valore positivo e di gratificazione. Così se tutto e lecito per imporre la ricerca del proprio benessere individuale, anche la sopraffazione, il quadro dei fattori di rischio per le numerose azioni violente messe in atto dai giovani, più che forza dimostrano debolezza, ricerca del potere che li fa assumere comportamenti atipici come normalità quotidiana. Dalla prevaricazione agli stupri in una sorta di autoassoluzione. Anche messi di fronte all’evidenza delle proprie azioni spesso gli autori faticano a spiegare il perché di questi comportamenti. Inutile dire che questi comportamenti violenti si registrano percentualmente in maniera più elevata in età adolescenziale, periodo che prevede il progressivo distanziamento dalla famiglia, la lotta per l’indipendenza e la ricerca del supporto da parte del gruppo degli amici, che in questo caso può diventare deleterio . Ovviamente diverso il caso dei minori stranieri che in genere provengono da situazioni di drammatica violenza subita e che vivono ulteriori fragilità nonostante il lavoro immane di educatori e strutture d’accoglienza. Per loro la necessità di integrarsi sarebbe fondamentale ed invece c’è il rischio che l’ostilità che certamente percepiscono, li porti ad affiliarsi ad un gruppo che risponde all’esigenza di trovare condivisione e approvazione. Così, di fronte a un’affannosa ricerca di sé, si finisce a prendere in prestito dai coetanei quei valori sociali e culturali che contraddistinguono la loro identità, identità nella quale purtroppo prevalgono modelli negativi. Chi ha avuto occasione di parlare con questi giovani, non solo con gli stranieri ma anche con disadattati autoctoni, ha potuto verificare come prevalgano sentimenti di vuoto, di inutilità, di inadeguatezza, a cui si possono associare spesso condizioni depressive, labilità affettiva, mancanza di tolleranza, angoscia e rabbia cronica. Tutti terreni fertilissimi per la violenza. Se a questa si risponde con altrettanta violenza, si rischia di creare e perpetrare nuove generazioni di infelici e incorreggibili candidati alla delinquenza e alla asocialità perniciosa. L’aggressività diventa qualcosa di patologico, unica risposta conosciuta e riconoscibile con il risultato che anche la legittima azione delle autorità viene vista come insopportabile ingerenza basata sulla legge del più forte e non sulla ragione di civiltà e convivenza, con il risultato che si rischia di mandare tutto fuori controllo. Il risultato finale non potrà che essere che quello di allevare un alto numero di soggetti che non riescono più a controllare la propria aggressività sentendosi costantemente sotto attacco e perdendo di vista ogni possibilità di sviluppo positivo della propria creatività e capacità cognitiva. Il tutto rischia di sfociare in impulsività e criminalità. E allora torniamo alle considerazioni d’apertura di questo articolo, il vero modo per limitare gli sbandamenti dei giovani è quello di offrire loro, non solo fermezza e regole giuste, ma anche dialogo e opportunità di socialità, culturali, sportive, ma soprattutto di prospettiva lavorativa senza sfruttamento e precarietà. Insomma fare in modo che i giovani, anche i più sfortunati e fragili, possano vedere un orizzonte ricco di possibilità e questo si potrà fare solo superando le diseguaglianze e dando loro opportunità di crescita. Con il manganello la partita si perde e dalle botte si rischia di passare al coltello.
Fabio Folisi