Gli assalti al Campidoglio: la democrazia resiste alle parole incendiarie di Trump e alle azioni violente dei suoi sostenitori
“Quello che non può fare… è ispirare violenza”. Così Gabriel Sterling, alto funzionario delle elezioni nello Stato della Georgia, il primo dicembre dell’anno scorso in un’accesissima conferenza stampa, dirigendosi direttamente a Donald Trump. Sterling non scoraggiava il presidente uscente di usare vie legali per ribaltare l’elezione ma esprimeva le sue preoccupazioni per il linguaggio che incitava alla violenza che lui subiva in prima persona. Sterling, come altri funzionari di elezioni in parecchi Stati, era soggetto di minacce da sostenitori di Trump perché le sue analisi indicavano che il candidato democratico Joe Biden aveva vinto l’elezione.
Il pericolo della violenza annunciato da Sterling si è concretizzato nella recente insurrezione dei sostenitori del presidente uscente il 6 gennaio, il giorno in cui il Congresso si era riunito per contare i voti elettorali e proclamare Joe Biden 46esimo presidente. Lo stesso giorno, però, Trump ha avuto un raduno a poco più di un miglio del Campidoglio, nel corso del quale ha reiterato ciò che andava dicendo da due mesi: l’elezione è stata truccata e gli è stata rubata la vittoria. I suoi sostenitori hanno creduto la menzogna e anche prima che finisse il discorso di Trump hanno cominciato a dirigersi verso il Campidoglio. Le conseguenze sono note: cinque morti, molti feriti, caos al Campidoglio, scene imbarazzanti trasmesse in tutto il mondo che hanno fatto vedere la fragilità della democrazia americana causata da un presidente che non crede alla realtà condivisa ma quella della sua mente. Il pericolo è che milioni di persone lo seguono, incapaci di credere che Trump possa avere torto.
Il presidente uscente sa benissimo che il suo linguaggio battagliero conduce alle pressioni violente dei suoi sostenitori. Nella campagna del 2016 disse in un’occasione che anche se lui sparasse qualcuno sulla Fifth Avenue non avrebbe perso consensi poiché i suoi sostenitori lo seguirebbero ciecamente. Aveva ragione. Alcuni sono stati sorpresi dagli eventi del 6 gennaio al Campidoglio ma in realtà era troppo facile prevederli. Il linguaggio di Trump anche dall’inizio della sua campagna elettorale era stato battagliero e senza filtri. Il 45esimo presidente ha usato le parole bellicose per proiettare l’immagine dell’uomo forte che si prende controllo e potere, pretendendo di farlo per il bene degli altri. In realtà lo fa solo per se stesso, incitando i suoi sostenitori a mettere pressione a quelli che gli sbarrano il cammino. Questa pressione spesso sfocia in pericoli all’incolumità dei suoi avversari. Persino il dottor Anthony Fauci, rispettatissimo virologo che ha dissentito molto diplomaticamente con Trump sul Covid-19, è caduto nel mirino di possibili attacchi e deve vivere sotto scorta.
Le parole violente sono state il modus operandi di Trump. Attaccare verbalmente i sui avversari, specialmente con tweet velenosi, e facendo perno sui sostenitori per mantenerli in riga. Bisogna combattere, secondo Trump, perché gli altri ci rubano non solo le elezioni ma anche il Paese. Nel suo discorso del raduno il 6 gennaio Trump ha usato la parola “combattere” più di venti volte. Alla fine del discorso il presidente uscente ha incoraggiato i sostenitori a “marciare sulla Pennsylvania Avenue” verso il Campidoglio. Lui sarebbe stato con loro. In realtà si è ritirato alla Casa Bianca ed ha guardato gli assalti alla TV. Un videoclip divenuto virale ci fa vedere la felicità di collaboratori e familiari di Trump mentre guardano il saccheggio del Campidoglio.
Il linguaggio pericoloso di Trump e le sue responsabilità per l’insurrezione al Campidoglio sono stati anche riconosciuti dai colossi dei digitali. Twitter che aveva in precedenza etichettato alcuni dei tweet di Trump come potenzialmente falsi ha deciso di sospendere il suo account per violazione delle regole. Facebook poco dopo ha bloccato l’account di Trump in modo definitivo, seguito da altre piattaforme. Poche ore più tardi Twitter ha chiuso definitivamente l’account di Trump. La app Parler, favorita da gruppi di estrema destra, e apparentemente usata dagli assaltatori al Campidoglio, è stata anche bandita. Alcuni hanno visto abusi contro la libertà di espressione da parte di queste piattaforme. In realtà Trump le aveva già abusate spudoratamente senza subire conseguenze ma gli eventi del 6 gennaio sono state la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Per il suo incitamento alla violenza il Congresso ha approvato gli articoli di impeachment con 237 a favore e 197 contrari, ma solo 10 parlamentari repubblicani hanno votato contro Trump. Il Senato dovrebbe aprire il processo per una possibile condanna e Mitch McConnell, presidente della Camera Alta fino al 20 gennaio, ha dato qualche segnale che, a differenza dell’impeachment dell’anno scorso, questa volta potrebbe votare per la condanna.
Trump avrà capito che le sue parole saranno state esagerate ed ha dato qualche segnale di essere contrario alla violenza. Troppo poco. Sembrerebbe che le sue espressioni di contrarietà alla violenza gli siano state suggerite dai suoi collaboratori poiché oltre alle ripercussioni politiche potrebbe anche essere soggetto a denunce penali, specialmente quando fra una manciata di giorni perderà l’immunità da presidente.
Domenico Maceri
Domenico Maceri è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California. Alcuni dei suoi articoli hanno vinto premi della National Association of Hispanic Publications.