Italia al centro dei traffici di armi da guerra. Interrogazione parlamentare sulla nave partita da Monfacone
La notizia secondo cui una nave ucraina avrebbe lasciato pochi giorni fa il porto di Monfalcone dopo aver caricato centinaia bazooka e missili anticarro destinati all’Arabia Saudita sembra essere piovuta come un fulmine a ciel sereno. In realtà che forniture di armi transitino dai porti italiani, senza spesso che neppure le autorità locali ne siano a conoscenza se non all’ultimo momento, è assai probabile se non certo. Del resto l’Italia, come il resto d’Europa, proprio sulla questione yemenita può vantare un livello di ipocrisia ai massimi livelli.
Bene quindi che la parlamentare pentastellata Sabrina De Carlo letta la notizia della nave a Monfalcone abbia deciso di interrogare i ministri del suo governo, purtroppo temiamo che anche la sollecitazione della parlamentare del Fvg resterà lettera morta. Scrive la De Carlo: “Una vicenda dai contorni gravi e preoccupanti quella emersa oggi a mezzo stampa, secondo la quale sarebbe stato individuato un transito di 360 bazooka e di 415 missili anticarro su un camion nel porto di Monfalcone che, conseguentemente, avrebbe percorso la rete autostradale al confine tra Italia e Slovenia”. “Ho ritenuto doveroso presentare prontamente un’interrogazione per fare luce sulla vicenda che coinvolgerebbe il porto di Monfalcone e per dare voce alla comprensibile preoccupazione in merito alla destinazione di tale materiale bellico alla guerra in Yemen”, spiega De Carlo. “È importante che i Ministri competenti, Difesa ed Interno, chiariscano se siano a conoscenza di quanto accaduto e se, per quanto di loro competenza, possano assicurare che siano state rispettate tutte le procedure di autorizzazione per il trasporto di armi al fine di rassicurare la popolazione residente in quelle zone, così come anche se siano a conoscenza della destinazione effettiva delle armi che sono transitate sul nostro territorio”. Bene apprezzabile la sensibilità che altri non hanno avuto, ma in realtà è bene ricordare
che non solo forniture di armi alla ricca Arabia Saudita sono in transito per l’Italia, ma che le bombe d’areo che stanno massacrando civili yemeniti, anziani donne e bambini compresi sono un “vanto” del made in Italy. Ricordiamo che qualche tempo fa il ministro Moavero Milanesi intervistato sulla vicenda – dichiarava che “sta senz’altro valutando” la possibilità di sospendere le forniture al governo saudita, di carichi di bombe che viaggiano “legalmente” con destinazione Riad . Infatti con quasi 500 milioni di euro di export – prodotti dalla Rwm Italia con sede a Domusnovas, nel Sulcis sardo – il nostro paese è al quarto posto tra i fornitori europei di armi all’Arabia Saudita. Gli affari sono affari ma a ben vedere non è che quelle bombe siano del tutto italiane, la Rwm Italia Spa con produzione in Sardegna è infatti una industria con sede legale a Ghedi (BS), ma di proprietà del gruppo tedesco Rheinmetall, che produce bombe in Sardegna, dato che in Germania non avrebbe avuto licenze di esportazione verso l’Arabia Saudita. Oibò come è possibile? E come è possibile che l’11 aprile scorso sia uscito un comunicato riportato dall’Ansa secondo il quale nessuna bomba per aereo sarebbe stata venduta, nel 2018, dall’industria italiana al regime saudita, impegnato nella sanguinosa guerra in Yemen se poi pezzi di quelle bombe (con matricole inequivocabili) sono state ritrovate fa le macerie di città e villaggi yemeniti.
In realtà nel mondo non c’è nulla di più facile che triangolare le merci e le armi sono una delle “merci” più triangolate. Un elemento di verità che io stesso ho potuto verificare durante la guerra in Bosnia, quando in pieno embargo, durante una sortita “giornalistica” nei pressi dell’enclave musulmana di Bihac, vidi con i miei occhi i contenitori con il marchio Oto Melara con tanto di data impressa. Quella data era in pieno embargo. Allora prendendomi dei rischi pesanti cercai di fotografarli, ma la mitragliatrice su un blindato che brandeggiava seguendo la nostra auto e gli occhi penetranti di un soldato che non mi perdeva d’occhio un secondo, mi fecero desistere. Da allora mi sono chiesto come diavolo erano arrivati quei contenitori e cosa contenessero. Ma tornando ala produzione di bombe per Riad, la notizia di un crollo della produzione in Sardegna nascerebbe, spiegano dal “Comitato Riconversione RWM” che si batte per trovare una strada pacifica all’azienda sarda, dalla lettura della relazione annuale al Parlamento in materia di armamenti, in cui si legge che il valore dell’export delle armi italiane verso Riad sarebbe crollato dai 427 milioni di euro del 2016 ai 13 milioni del 2018. In realtà le relazioni parlamentari bisogna saperle leggere fra le righe e soprattutto i dati riportati vanno incrociati e messi in collegamento con altre informazioni, perchè una cosa sono le licenze all’esportazione, una cosa le vendite, un’altra ancora sono le esportazioni, intese come spedizioni di merce da un paese all’altro. La realtà dei fatti, continuamente monitorata dal Comitato per la Riconversione della RWM e da altri attenti osservatori, è ben diversa. Le bombe continuano a partire verso la penisola arabica e le licenze del 2016 sono ancora ben lungi dall’essere esaurite. In realtà la fabbrica di Domusnovas-Iglesias continua a produrre, al massimo delle sue possibilità, per l’Arabia Saudita, sempre per fare onore a quelle autorizzazioni non “esaurite”. Il motivo per cui si è determinata la situazione nasce dalla limitata capacità produttiva della fabbrica, insieme al fatto che l’Arabia non è l’unico cliente. Questo fa si che gli oltre 450 milioni di euro di bombe per aereo, autorizzati a partire dal 2016, (corrispondenti a circa 20.000 pezzi) potrebbero richiedere fino a 10 anni di lavoro per essere prodotte e trasferiti all’Arabia. Inoltre, dopo numerose e ben documentate indagini giornalistiche e dopo le verifiche del gruppo di esperti dell’ONU, non ci possono essere più dubbi né sull’uso in Yemen, da parte della coalizione saudita delle bombe prodotte in Sardegna, né sulle pesantissime conseguenze di quei bombardamenti su centinaia di migliaia di civili yemeniti, comprese donne e bambini.
Tutto questo è possibile anche perchè il Codice di condotta dell’Unione europea sull’esportazione di armi datato 1998 è completamente disatteso come lo è il suo aggiornamento del 2008 . In sostanza la UE avrebbe una chiara posizione sull’esportazione di armi, gli Stati membri dell’Unione europea si sono infatti impegnati a raggiungere “standard comuni elevati” e “convergenza” nei loro controlli sulle esportazioni di armi . Gli standard sono definiti in otto criteri che impongono agli Stati membri di attenersi a determinati standard nella valutazione delle licenze per le esportazioni di armi. Ciò include il negare le licenze quando esiste un “chiaro rischio” che le armi “possano” essere utilizzate per commettere violazioni dei diritti umani o del diritto internazionale umanitario (IHL) e “[prendendo] in considerazione” il rischio che vengano deviati a un utente finale o utente finale non autorizzato. Sulla base di questo non una bomba dovrebbe lasciare la Sardegna e nessun bazooka e missile il porto di Monfalcone. Il problema è che la “convergenza nei controlli degli Stati membri” è promossa attraverso sistemi di condivisione delle informazioni che tanto di condivisione non sono. Facciamo un esempio: nei casi in cui uno Stato desidera rilasciare una licenza per un’esportazione di armi che un altro Stato ha precedentemente negato vi sarebbe l’impegno a consultarsi reciprocamente. Tuttavia, il processo decisionale relativo alle licenze per l’esportazione di armi rientra nelle competenze nazionali degli Stati e non esiste un meccanismo formale a livello UE per sanzionare l’inosservanza della posizione comune. Insomma il “codice di condotta” se non carta straccia gli somiglia molto, ed in realtà le organizzazioni non governative (ONG), molti parlamentari e accademici hanno spesso messo in dubbio che gli Stati membri dell’UE stiano applicando correttamente e coerentemente i criteri della posizione comune. Il risultato è sott gli occhi di tutti ma soprattutto sulla testa egli yemeniti il cui sterminio è definito dall’ONU, la maggiore crisi umanitaria mondiale dal 1946 ad oggi. Il tutto avviene perchè l’amicizia di Riad con gli Usa si è rinsaldata con la presidenza Trump, mentre gli interessi petroliferi mondiali, consentono ai sauditi di avere una vera è propria licenza d’uccidere.
Fabio Folisi