La piccola patria e l’eredità del milite ignoto
L’intero territorio regionale si sta preparando alla celebrazione del centenario della traslazione della bara del “milite ignoto” dalla Basilica di Aquileia all’Altare della Patria a Roma. Dalle foglie morte del 1921 a quelle del 2021. La celebrazione della morte degli eroi e il culto della guerra, oltre ad avvenimenti e mausolei, particolarmente dopo la prima guerra mondiale, ha permesso di costruire una dimensione di massa di un sentimento nazionale che ha supportato tutte le drammatiche incursioni statali in conflitti di potere del XX secolo, spesso falsamente ammantati da legittimazioni di “interesse etnico-nazionale”: ricordiamo il “mare nostrum” e il “lebensraum”. La cosa non ha riguardato solo l’Italia ma ha avuto una estensione europea fino alla II guerra mondiale per poi propagarsi in tutto il mondo a partire dai percorsi di decolonizzazione. Attualmente la memoria storica di mitizzazione del patrimonio etnico-nazionale è ancora alla base di conflitti e violenze in molte parti del globo ma in qualche modo sembra diventare soprattutto “scontro di civiltà” secondo la famosa definizione di Huntington: modelli politici, religiosi, concezioni economiche, sembrano motivare combattenti di ogni tipo in contrapposizioni che spesso scambiano una pura modalità di “lotta”, il terrorismo, in un nemico approssimato e incomprensibile.
Gli studi attuali di geopolitica segnalano una crescente possibilità o necessità che la stessa politica italiana (ed europea) debba avvalersi di nuove forme di potenza militare per sostenere non comprimibili interessi nazionali o anche semplicemente per far sì che la stessa Unione Europea possa contare nei nuovi confronti imperiali che si stanno palesando nel mondo. Se questa maggiore o minore autonomia strategica debba ancora essere tributaria e dipendente dagli USA sarà forse in discussione, ma, con o senza un concerto europeo, un efficiente riarmo dello stivale è comunque all’ordine del giorno: marina, aviazione, forze di rapido intervento in situazioni poco convenzionali, in primis.
Per sostenere questa svolta non basta ricercare professionalità e buone dotazioni di tecnologie: bisogna che la società civile ed i soggetti interessati ci credano agli interessi “nazionali” e, se necessario, siano disposti a mettere in gioco la propria vita. Mi permetto di dubitare che in una società matura e, tutto sommato opulenta, come quella italiana ed europea occidentale ciò sia scontato. L’impero romano per secoli si è espanso e difeso grazie ad eserciti di immigrati e mercenari. Sarà probabilmente anche il nostro destino, già gli USA sono su questa strada, ma un minimo di spinta ideologica per ridare un po’ di spirito guerresco al popolo non può guastare.
Sotto la scorza di una immancabile esecrazione per le guerre e le vittime del passato, proprio a questo scopo può servire la celebrazione del centenario della traslazione della salma del milite ignoto da Aquileia a Roma. Forse non ci saranno le folle di cento anni fa, ma l’amor di patria non può non esserne sollecitato così come l’orgoglio “nazionale”, indirizzato non solo verso la celebrazione di successi sportivi, delle eccellenze culturali del passato ed attuali, o della capacità delle comunità di risollevarsi da eventi disastrosi. Deve anche volgersi a sostegno di quelle che oggi si chiamano forme di “soft e hard power” di vario tipo che accompagnano lo spazio della diplomazia nel far emergere il ruolo della “nazione Italia”: quindi uso della forza e delle armi se necessario.
La I guerra mondiale si presta perfettamente all’occasione: fu una guerra di conquista spacciata per compimento del Risorgimento ma con l’obiettivo vero di costruire confini militarmente difendibili (secondo la “scienza” dell’epoca) ed estendibili che non riguardavano certo la “nazione” romantica. Mi sono sempre chiesto perché ci siamo accaniti sul confine orientale e su zone alpine evitando di mirare al Canton Ticino, a Nizza, alla Corsica, a Malta. E poi alla fine del secolo turbolento prendere atto che la presenza italiana, particolarmente nelle coste adriatiche e nel Mediterraneo, si è drasticamente ridotta. Per questo le celebrazioni che si stanno preparando non rappresentano un doveroso ricordo per chi è stato costretto a sacrificare la propria vita ad una patria autoritaria e cinica, ma una esaltazione degli pseudo valori che hanno portato a quegli avvenimenti e ad una celebrazione delle classi dirigenti che gli hanno supportati. La Costituzione della Repubblica italiana ancora in vigore non avrebbe permesso quella guerra così come quelle che poi si sono susseguite fino al 1945. Mi sembra che il tutto serva non tanto a ricordare il “milite ignoto” del passato ma a preparare il “milite tecnologico” del futuro ed una popolazione disposta a farsi carico dei rischi che la geopolitica e le geo strategie dell’oggi sembrano comportare.
C’è infine l’aspetto che ci riguarda come friulani. A conclusione della I guerra mondiale il Friuli entrò a far del tutto parte dello stato italiano, salvo essere amministrativamente suddiviso nella Provincia di Udine (di fatto considerata Veneto) ed in quella di Gorizia, ricondotta a parte della nuova entità Venezia Giulia. Ma soprattutto la “questione friulana” nella sua dirompente motivazione linguistica e nelle sue caratteristiche territoriali riuscì ad essere inquadrata nel concetto di “piccola patria”, tributaria ed asservita ai destini “imperiali” della “grande patria italiana”, complice dell’alternarsi dei conflitti con le “patrie slave” e “tedesche”, anch’esse succubi di visioni nazionaliste incompatibili con il vivere civile comune di popolazioni storicamente copresenti nel territorio. Per questo ritengo che una “vittima” non ancora riconosciuta della I guerra mondiale sia proprio l’identità del Friuli, nelle sue potenzialità di essere altro nel secolo dei conflitti e delle tragedie etniche e nel suo perpetuarsi di una “sotananza” rispetto alle ideologie prevalenti nella “patria italiana”, anche quando una propria autonomia nel governo di vicende internazionali potrebbe essere di utilità dello stesso stato italiano. Il percorso di particolare “liberazione nazionale” che si è sviluppato in Friuli nell’ambito degli spazi istituzionali della Repubblica Italiana non riesce ad esprimere oggi, per limiti oggettivi e soggettivi, le sue potenzialità ed originalità: tra queste una propria visione di futuro quale momento di coagulo dei diversi popoli, comunità ed istituzioni, che insistono su questo particolare angolo d’Europa. La maledizione della “piccola patria”, in un periodo dove le aporie retrotopiche continuano a pesare sulla vita sociale e politica, incombe sempre e la difesa dei confini, perlomeno nelle celebrazioni, continua ad avere cittadinanza. L’ottobre del 2022 vedrà la scadenza di un ulteriore centenario. Speriamo di lasciarlo ai libri di storia. Giorgio Cavallo