L’Alpe Adria dei “padroni a casa nostra”
I popoli di Alpe Adria, mitica regione europea a cavallo tra l’Alto Adriatico e il Nordest alpino, sono da tempo, da ben prima della caduta della cortina di ferro, un asset fondamentale per la costruzione di una nuova centralità mitteleuropea di collaborazione, rispetto e integrazione tra genti diverse. Stufi di guerre e di conflitti non mancano occasione per giurare in un futuro comune. Eppure sul piano politico istituzionale le cose, a parte le dichiarazioni ufficiali, sembrano andare diversamente.
Se le aspettative erano già ampie quando si confrontavano esperienze di democrazia liberale e organizzazioni statali simil bolsceviche, con i primi anni 90 e soprattutto con il poderoso avvento dell’Unione Europea un futuro luminoso sembrava fatto. Ma se consideriamo il risultato di 30 anni di pratiche neo democratiche sulla base di chi oggi governa in questa area comincia a sorgere qualche dubbio. Non ci sono forse più i confini fisici del passato ma qualcosa d’inquietante sta subentrando.
Alpe Adria è sempre stata una specie di fisarmonica ma sicuramente ha identificato alcune aree di Austria, Slovenia, Croazia, Ungheria e Italia. Le situazioni non sono facilmente interpretabili per quanto riguarda le prevalenze politiche, ma i governi degli stati a noi vicini sono tutti occupati da capi “sovranisti” o “nazionalisti” e le Regioni italiane coinvolte, Veneto e Friuli-Venezia Giulia sono di stabile appannaggio della Lega Nord che, pur appoggiando un governo Draghi, non pare proprio uno schieramento di chierichetti liberali.
Kurz, Jansa, Orban e Plenkovic nell’insieme paiono più somiglianti a Meloni che all’agitato Salvini, ma se pur in singole regioni quali Carinzia ed Istria i governi locali sono più “progressisti” rispetto a Fedriga e Zaia, i temi della sicurezza e dell’emigrazione, in sostanza della paura e del nemico , paiono dominare in generale sul quadro politico.
Una visione retrotopica della propria realtà mette in evidenza una contraddizione clamorosa tra una strenua difesa socio culturale delle relazioni di comunità, tirando in ballo anche inesistenti elementi religiosi, ed una evidenza economico finanziaria che, a parere unanime, non può che far considerare questa area come uno spazio allargato (colonia) del modello egemonico produttivo tedesco. Domicili fortificati in competizione per fette di trading globale.
Se Trieste sta scommettendo tutti i suoi averi su un futuro logistico sempre più internazionalizzato facendone anche un must per l’intera Regione, il Friuli abbozza e sembra rifugiarsi nella difesa delle sue dimensioni produttive concedendone la rappresentanza totale ai portavoce della classe padrona, peraltro prevalentemente non più locale. Terra efficiente di sub fornitura riesce ancora ad esportare e più in là non mette becco. Siamo in attesa di gestire qualche briciola del PNRR su cui si è esercitata l’incapacità delle élites dirigenti politiche e tecniche di capire di cosa si stava trattando.
Il quadro politico delle istituzioni di Alpe Adria sopra descritto fortunatamente non può essere definito come “sovranista” (salvo forse le riflessioni ungheresi su Trianon); da queste parti il termine significherebbe contese confinarie e praticabilità violente di revisione. Piuttosto si tratta di un casalingo e autogratificante “padroni a casa nostra” con cui affrontare ed allontanare le sfide della attuale post modernità. E questo vale anche per i molteplici temi che talvolta attribuiamo alla “questione friulana” pian piano sempre più metabolizzati in una nuova riedizione di “piccola patria” al servizio della politica e della amministrazione di quella “grande” avviata a contendersi in un susseguirsi di inutili elezioni le pulsioni estemporanee di questioni marginali.
Se il Friuli ha un senso ed un futuro lo ha se riesce a connettersi ai grandi flussi della storia ed a maturare in tale contesto una funzione. Lo è stato con Aquileia nella proiezione ad est dell’impero romano, lo è stato nel conflitto medioevale tra Sacro Romano impero della nazione tedesca e papato: meno gloriosamente ma con evidenza lo è stato quale testa di ponte delle occupazioni asburgica prima e nazista poi nelle due guerre mondiali del XX secolo, e infine quale baluardo militare dell’occidente di fronte alla improbabile invasione dell’impero sovietico. Certo fatti d’arme e di sofferenza, ma anche di indicazione di un ruolo territoriale che difficilmente la storia potrà comprimere nella fedeltà ad una nazione “romantica” e risorgimentale quale l’Italia.
Oggi di fronte a comunità “nazionali” rinserrate dalla paura a far finta di essere “padroni a casa propria” compito del Friuli (e direi anche di Trieste) è quello di far capire all’insieme della regione europea in cui viviamo, l’Alpe Adria appunto, che i problemi che abbiamo di fronte si risolvono sia facendo tesoro delle risorse delle comunità territoriali rielaborandole e valorizzandole rispetto alle ostilità esterne che le vogliono depredare, sia affrontando insieme e con strumenti comuni di confronto e di governo le questioni umane e materiali che ci assillano.
La crisi climatica ed energetica, gli inquinamenti dell’aria e delle acque, il governo dei flussi del corridoio logistico dell’emigrazione, le concorrenze nelle infrastrutture e nei sistemi produttivi con l’attivismo di agenti esterni interessati a egemonie globali, la costruzione di modelli di plurilinguismo di relazione, l’importanza della messa in comune di scienza e cultura, le lotte per la salute e lo stesso controllo delle epidemie, fanno capire che non esiste una “casa” da difendere da malintenzionati ma un sistema da costruire e governare attraverso percorsi democratici che la “sovranità” degli stati nazione non riesce a concepire e che la stessa Unione Europea fatica a mettere in evidenza.
Si dirà “in democrazia ogni popolo ha i governanti che si merita” ma le occasioni della storia possono anche generare illuminazioni improvvise. Per il Friuli (e per l’intera area) sarebbe proprio il caso.
Giorgio Cavallo