L’occupazione femminile protegge dal rischio di povertà lavorativa: l’indagine di UniTrento
– Il lavoro è uno dei principali fattori che consente ad una persona di realizzarsi, di vivere in un certo benessere. Ma avere un lavoro a volte non è sufficiente per evitare di cadere in povertà. Questo vale soprattutto per le famiglie monoreddito. Negli ultimi decenni la società è molto cambiata. Ha dovuto affrontare crisi finanziarie, politiche, sociali, la pandemia. Il modello familiare di una volta, il cosiddetto male breadwinner model, dove era l’uomo soltanto a guadagnare un salario e a provvedere al mantenimento della famiglia, non basta più. L’elemento chiave per uscire da una situazione di disagio economico ed evitare in futuro di tornarci, è rappresentato dall’occupazione del partner. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di donne.
A dimostrarlo scientificamente è lo studio condotto da Paolo Barbieri, Stefani Scherer e Giorgio Cutuli del Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell’Università di Trento, già fondatori del Center for Social Inequality Studies (Csis).
Chi è considerato a rischio povertà lavorativa. L’analisi si concentra sugli occupati poveri. Il concetto di povertà lavorativa – che in sociologia viene definito “in-work poverty” – è stato proposto da Eurostat. Secondo questo indicatore, il lavoratore povero è considerato tale se dichiara di essere stato occupato per almeno 7 mesi nell’anno di riferimento e se, insieme al suo nucleo familiare, pur godendo di un reddito da lavoro, vive al di sotto della soglia di povertà.
Il livello salariale è una delle cause, ma non l’unica, della povertà lavorativa. L’ in-work-poverty tiene conto, oltre che della dimensione individuale della persona, anche di quella familiare (la struttura demografica e la composizione occupazione del nucleo stesso).
Può succedere infatti che un individuo abbia uno stipendio in media con la sua posizione occupazionale, ma se ha a suo carico una famiglia numerosa, può ricadere nella condizione di in-work poor.
Lo studio
I ricercatori hanno indagato i livelli e i determinanti della povertà nel lavoro in 14 paesi dell’Europa occidentale, comparandoli tra loro, utilizzando i dati EU-SILC 2004 – 2019. Hanno studiato le condizioni lavorative di uomini e donne tra i 18 e i 65 anni. Sotto la lente il reddito familiare, il numero dei figli, il livello di istruzione, le condizioni lavorative di chi ha la responsabilità dello stipendio, il tipo di contratto e la durata.
Il ritratto che emerge degli individui occupati poveri è che si tratta di maschi, adulti, unici percettori di reddito salariale in una famiglia con più componenti.
L’articolo dimostra inoltre che il tasso di rischio di povertà lavorativa è maggiormente elevato nei paesi dell’Europa mediterranea dove sono più presenti famiglie monoreddito: Italia, Spagna, Grecia e Portogallo.
Nel caso specifico dell’Italia, i lavoratori poveri (working poors) sono il 12% dei 22 milioni di occupati, cioè circa 2,6 milioni. Ma se si considerano anche i familiari, il dato raddoppia.
I lavoratori più esposti sono quelli non qualificati, autonomi, con contratti atipici, impiegati nei servizi di supporto alle imprese e di cura alla persona, che occupano manodopera non specializzata.
Un altro aspetto interessante che è emerso riguarda la permanenza in uno stato di povertà lavorativa e il rischio di ritornarci. Anche in questo caso per i gruppi monoreddito, di classe sociale bassa, con una bassa istruzione e poche risorse è più difficile riscattarsi.
A spiegare quali sono i meccanismi che producono la povertà lavorativa sono elementi di tipo strutturale: stipendi bassi, lavoro precario, bassa istruzione, crescita del settore dei servizi a bassa produttività. Secondo gli studiosi i sussidi economici elargiti a favore delle classi più bisognose non riducono il rischio povertà.
“In letteratura – spiega uno degli autori, Paolo Barbieri – c’è un dibattito aperto sul fatto che distribuire soldi crei dipendenza dal welfare. Questi interventi funzionano solo se riducono il rischio di ritornare in povertà una volta che la misura finisce. Quindi domani quella famiglia non sarà più povera. Quello che noi mostriamo – sottolinea il docente – è che questo meccanismo di “genuine state dependance” ha un peso causale relativamente basso nel determinare il rischio di persistenza nella povertà lavorativa. I nostri risultati sostengono una lettura secondo la quale creare occasioni occupazionali, unitamente a sostenere politiche attive del lavoro e occupazione femminile, è più efficace che non limitarsi a distribuire reddito”.
I regimi familiari a doppio reddito, conclude lo studio, hanno il potenziale per migliorare l’uguaglianza sociale, non solo tra uomini e donne, ma anche tra le generazioni e tra le varie classi sociali. (Fonte Aise)