Nell’agosto 2018 una transessuale di 33 anni, moriva suicida nel carcere “maschile” di Via Spalato. Esempio drammatico del fatto che conta più la carta d’identità che non il vissuto soggettivo di genere
Qualche giorno fa sui social veniva ri-postata la notizia della morte di Danila, transessuale straniera di 33 anni suicida 4 ore dopo essere entrata nel carcere di Udine di via Spalato, trovata impiccata con un lenzuolo nel bagno del reparto “protetto” dove era stata reclusa. In molti non avevano notato la data del post, agosto 2018, pensando si trattasse di un ennesimo caso e lamentando che la stampa non se ne stesse occupando. In realtà, una volta tanto, la stampa è innocente visto che la notizia era datata e anche alle accuse che era stato omesso il nome della vittima “senza riportare un nome, un’identità, senza il rispetto dell’identità sessuale. Una trans. Come un oggetto, manco un animale” si può tranquillamente rispondere che questa “omissione” viene quasi sempre fatta per rispetto della vittima (uomo, donna o trans) di questa estrema scelta. Ci sono ovviamente delle eccezioni a questa regola e riguardano sostanzialmente l’eterno e sottile limite fra il diritto di cronaca e quello di salvaguardare la dignità delle persone, anche nel caso in cui queste fossero famose. Il confine è delimitato in maniera dettagliata dal Testo unico dei doveri del giornalista, che richiama il Codice dei trattamenti dei dati personali: non tutto si può scrivere; non tutto è giusto che diventi notizia. Il requisito è quello dell’interesse pubblico: episodi minimi, fatti personali che riguardano persone non conosciute, prive di ruoli pubblici, non possono, non devono finire all’attenzione dei media. Fatta questa doverosa difesa della categoria, che purtroppo spesso non applica queste norme deontologiche, si può invece dire che la tematica generale dei suicidi in carcere, di qualsiasi sesso sia la vittima, è un problema raramente trattato dai media come non lo sono, in genere, le questioni che riguardano le condizioni di vita negli istituti penitenziari. Il perchè è facilmente comprensibile, i diritti dei detenuti non sono argomenti “popolari”, anzi, nella vulgata di certa plebe e in quella di molti politici che su questi concetti basano la loro fortuna elettorale, l’idea che il detenuto debba “soffrire” per espiare la propria pena diventa fattore addirittura gratificante. Poco importa se molti detenuti sono in attesa di giudizio, quindi potenzialmente innocenti, poco importa se in carcere spesso finiscono soggetti deboli incapaci di efficace difesa e che più che di reclusione necessiterebbero di attenzione. Insomma nonostante l’Italia sia il Paese natale di Cesare Beccaria il sistema carcerario italiano non brilla per umanità ed organizzazione anche se, innegabilmente, alcuni sforzi vengono fatti dal sistema penitenziario grazie alla volontà di molti operatori. Ma resta comunque il dramma del sovraffollamento causa principale di atti di violenza e autolesionismo. Sovraffollamento per il quale l’Italia è stata condannata dalla Corte di Giustizia Europea più volte. Nel 2018, sono stati 63 i morti per “volontà” nelle carceri italiane e fra questi c’è anche Danila che secondo una relazione del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute era una della 58 persone transessuali presenti all’epoca nelle carceri italiane. Guardando i siti istituzionali e le statistiche ufficiali si scopre che queste persone sono attualmente collocate in 10 sezioni a loro riservate , ma quasi tutte collocate in istituti maschili. Nella recente relazione al Parlamento del Garante, datata 2018 (che alleghiamo in calce), si legge fra l’altro: “Il Garante nazionale ha da tempo espresso l’opinione che sia più congruo ospitare tali sezioni specifiche in Istituti femminili, dando maggior rilevanza al genere, in quanto vissuto soggettivo, piuttosto che alla contingente situazione anatomica”. In altre parole, bisognerebbe dare priorità alla percezione soggettiva dei diretti interessati/e, quindi alla loro identità di genere, piuttosto che basarsi semplicemente sui documenti anagrafici che riportano quasi sempre i dati anagrafici al maschile. Un paio di anni fa si era parlato della stesura di un decreto del ministro che, almeno in via sperimentale, andava in questa direzione e ridefiniva le sezioni destinate alle persone transessuali. Purtroppo il decreto non è stato emanato e nei cambi di governo il tema sembra sparito dall’agenda delle urgenze, ora, nell’idea di una nuova maggioranza di Governo, potrebbe essere il momento di riproporre la questione.
Fabio Folisi