Non dimenticare il G8 di Genova. Il racconto dell’avvocato del Genoa social forum Andrea Sandra, udinese d’adozione e testimone oculare dei fatti
Non ci piacciono anniversari, ricorrenze e giornate dedicate, sono spesso passerelle stucchevoli e mezzucci per mettersi a posto la coscienza relativamente a temi o fatti che dovrebbero avere cittadinanza continua nella pratica quotidiana e non una volta all’anno. Tuttavia ricordare fatti storici che hanno pesantemente influenzato il paese può essere utile soprattutto perchè, come dimostrano troppo spesso le cronache, la memoria popolare è più simile a quella di in pesce rosso che a quella di un “sapiens”, non fosse così dispensatori di falsità e di mezze verità non avrebbero il successo mediatico ed elettorale che anno. In questi giorni cade il ventesimo anniversario dei fatti del G8 di Genova e per la prima volta, questa è davvero una novità, c’è la quasi generale ammissione che le motivazioni che avevano portato centinaia di migliaia di persone nel capoluogo ligure, erano giuste. Giusto era mettere in dubbio la globalizzazione e il liberismo sfrenato, giusto era chiedere rispetto per l’ambiente, un lavoro tutelato e contrastare le logiche capitalistiche che hanno poi generato l’attuale situazione, messa a nudo in maniera ormai plastica dal Covid e dagli effetti del cambiamento climatico. Bisogna dire che la cosiddetta élite mondiale aveva ben compreso il pericolo che un movimento di massa, eterogeneo come quello sceso in piazza a Genova, avrebbe potuto determinare, infilando con le proprie idee una zeppa nel meccanismo perverso che si era già avviato. Proprio dal 2001 quella corsa sfrenata al modello economico globalizzato ebbe accelerazione consistente aiutato, fra l’altro dall’evento successivo al G8 di Genova, quel 11 settembre con l’attentato alle Torri Gemelle che diede ulteriore possibilità agli Usa, ma non solo, di bypassare molti vincoli e soprattutto catalizzare l’attenzione del mondo sul pericolo Isis. Era quindi necessario tagliare la testa al movimento e come nella storia si è spesso ripetuto, il metodo migliore è la violenza, la provocazione e la menzogna come mezzo pianificato per far identificare quelle moltitudine di uomini e donne, giovani e meno giovani, con le azioni di qualche decina di violenti nati non certo per caso. Così perfino le maestre della rete Lilliput o i pacifisti con le mani dipinte di banco diventarono all’improvviso Blak Bloc, quella falange violenta transnazionale sulla quale, guarda caso, poco si è indagato e poco si indaga anche oggi. Fenomeno e che rispunta ad ogni accenno di mobilitazione popolare e che molti sospettano siano elementi geneticamente modificati dall’intervento di servizi segreti. Tuttavia parlare oggi di quanto accaduto a Genova cercando automatici parallelismi, è operazione quantomeno ardita. Se invece ne si parla affinchè soprattutto chi non ha vissuto quei tempi, possa viverne anche solo inderettamente la memoria è operazione doverosa anche perchè come la cronaca recentissima racconta certi metodi violenti non sono stati eradicati del tutto, ci riferiamo i fatti avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove per fortuna nelle mani della magistratura, contrariamente a vent’anni fa c’è lo strumento giuridico del reato di tortura che nel 2001 non era previsto dal codice rendendo inefficace in molti casi l’azione penale contro i reponsabili della mattanza alla Diaz e nella caserma di Bolzaneto. Ed allora a vent’anni da quei fatti, abbiamo chiesto ad Andrea Sandra, uno dei protagonisti di quei fatti, perchè faceva parte del poll di avvocati che aiutava il Genoa social forum. di raccontarci da testimone i fatti accaduti. Dal suo racconto la conferma che al G8 di Genova venne messo in atto un temporaneo golpe, una inaccettabile sospensione dei diritti costituzionali che restano macchia indelebile e non cancellata da una giustizia che dopo quei fatti non seppe affermare la propria autonomia.
Andrea Sandra da 15 anni vive e svolge la sua professione di avvocato penalista ed il suo impegno politico a Udine trasferitosi proprio da Genova.
Avvocato Sandra ci racconti la genesi del suo impegno nel Genoa social forum:
Ho cominciato a frequentare il social forum a marzo. Ero abituato al formalismo delle riunioni di partito (ero segretario dei comunisti italiani e provenivo da rifondazione comunista) e sono rimasto subito molto colpito dal clima positivo delle riunioni nelle quali si discuteva sulle iniziative da tenersi in concomitanza con le giornate del G8, sull’organizzazione dell’accoglimento dei manifestanti e dei rapporti con le istituzioni. L’approccio da parte di tutti era molto pratico e collaborativo. Si pensò di organizzare una squadra di avvocati che potesse fornire consulenza ai manifestanti, specie quelli provenienti dall’estero e nessuno immaginava che il ruolo dei legali sarebbe stato poi ben altro.
Ci spieghi meglio quest’ultimo passaggio.
Verso la metà di luglio ero stato contattato dal presidente dell’ordine degli avvocati di Genova, avv. Dirella, personaggio pubblicamente schierato a destra, ma ottima persona e soprattutto ottimo avvocato, il quale mi chiese se saremmo stati in grado di garantire le difese d’ufficio e di assumermi la responsabilità. Un po’ incoscientemente, a pensarci ora, dissi di sì e comunque riuscimmo ad organizzarci bene avendo scelto di essere presenti in tutti i cortei indossando riconoscibili maglie gialle e occupando una delle stanze della scuola Pascoli, quella di fronte alla Diaz, dove ci si occupava delle questioni amministrative delle contromanifestazioni. In realtà fu un’organizzazione molto spontanea che funzionò per la sintonia con la quale lavoravamo e per degli avvocati già questa è già una notizia.
Quindi vi aspettavate una certa attività legale da dover svolgere?
Certo, pochi giorni dopo al colloquio con l’Ordine degli avvocati, avevamo fatto una riunione in Tribunale alla presenza del presidente di cui ora non ricordo il nome, il quale ci informò che le carceri di Alessandria, Novara e Vercelli erano state preparate per ospitare gli arrestati, stimati in circa 300 persone: si tratta effettivamente del numero di coloro che saranno poi portati in carcere.
Veniamo ai giorni della mobilitazione, come si sviluppò l’organizzazione?
La manifestazione del 19 fu molto pacifica e a tutti sembrò che anche le successive sarebbero state così, specie quella del giorno dopo per la quale erano previsti percorsi differenziati e azioni dimostrative, ma non violente . Gli accordi con la prefettura erano molto chiari. Le Tute bianche avevano dichiarato di voler sfondare le reti della zona rossa e dallo stadio Carlini, luogo di concentramento, si sarebbero recati in centro in piazza Dante, a ridosso del Palazzo Ducale dove era la riunione del G8. L’accordo era di transitare lungo i viali e arrivare sino alla piazza, ma non sarebbe stato concesso lo sfondamento. Altro accordo era stato fatto con la Rete Lilliput, Scout e i movimenti cattolici con le mani colorate di bianco proprio per sotto lineare la non violenza, che da piazza Manin sarebbero scesi (come peraltro accaduto) fino alla delimitazione della zona rossa in piazza Corvetto che comunque era molto distante dal Palazzo ducale.
Tutto andò come previsto?
La mattina del 20 ero nella postazione degli avvocati nella scuola Pascoli quando arrivò la notizia di tafferugli in piazza Da Novi. In motorino, con una collega di Roma, Teresa D’Addabbo, ci recammo immediatamente sul posto e assistemmo ai primi danneggiamenti. Per lo più si trattava di cassonetti incendiati e lasciati in mezzo alla strada. Gli schieramenti di polizia e carabinieri erano distanti un centinaio di metri, ma non intervenivano. Il black bloc era in effetti piuttosto inquietante. Un gruppetto di sette/otto persone vestiti di nero, con i volti e la testa coperti, le bandiere nere, un rullante e una grancassa. Inscenavano una breve marcetta camminando in circolo e subito dopo si scatenava l’inferno con attacchi alle macchine e alle vetrine delle banche. Si trattava di gruppetti molto piccoli e rapidissimi nell’azione. Avevano colpito nella zona di corso Torino e corso Sardegna, ma si erano portati sino al carcere di Marassi dove avevano, tra l’altro, incendiato il portone di ingresso. E’ stato quello l’inizio della fine.
A quel punto cosa successe?
La polizia cominciò a caricare ogni assembramento in città, ma arrivando sempre in ritardo, quando il black bloc si era già dileguato. La carica più feroce avvenne in piazza Manin contro le mani bianche che si erano disperse in ogni dove e non fu una scelta felice visto che i manifestanti isolati, in particolare, venivano raggiunti da tre o quattro poliziotti e selvaggiamente picchiati. A quel punto tutto il centro città era coinvolto dagli attacchi delle forze dell’ordine nei confronti dei manifestanti.
E voi come stavate agendo?
Come avvocati avevamo stretto accordi informali con i medici del pronto soccorso i quali ci avevano garantito che non avrebbero denunciato i manifestanti che andavano a farsi medicare. Ma il peggio delle cariche avvenne contro le tute bianche in corso Gastaldi con polizia e soprattutto carabinieri che, incuranti degli accordi con la prefettura, caricavano con particolare violenza il corteo disperdendone i partecipanti e dando vita ad una vera e propria caccia all’uomo. Alle 17 circa ero in via Caffa, alle spalle di piazza Alimonda dove la notizia dell’uccisione di Carlo Giuliani arrivò immediata e mi colpì l’apparente calma improvvisa che si creò quando appena prima eravamo nel momento di massimo caos, con il defender assediato, i carabinieri sorpresi dalla reazione del corteo e i pestaggi che si verificavano un po’ ovunque. Vedere il corpo a terra di Carlo Giuliani fu come un attimo di sospensione che non saprei bene definire tra il sentimento di rabbia, paura ed eccitazione che stavamo provando fino a quel momento.
Veniamo alle ore successive ed in particolare ai fatti della sera.
La sera, nella scuola (la Pascoli situata dinnanzi alla Diaz ndr), il clima era molto pesante. Nei nostri computer raccoglievamo le denunce e le segnalazioni dei manifestanti e cominciavano a circolare le notizie di coloro che erano stati arrestati e condotti nella caserma di Bolzaneto. Non c’erano notizie accertate, ma le voci che arrivavano sarebbero state poi confermate, come sappiamo. In piazzale Kennedy era situata la sede del centro operativo, a fianco vi è il palazzetto dello sport dove erano concentrati i poliziotti. La situazione era surreale, in piazza ci fu un’assemblea pubblica molto partecipata per decidere il da farsi rispetto al programma del corteo del giorno successivo che qualcuno avrebbe voluto cancellare. Dal palazzetto si udivano cori da stadio inneggianti il duce e la morte di Carlo Giuliani.
Cosa avvenne il giorno dopo?
Il corteo del 21 si fece e il black bloc, stavolta, infiltrato nel grande corteo, ne usciva per i danneggiamenti e si disperdeva immediatamente. Anche in questa occasione, la reazione delle forze di polizia fu tardiva e molto violenta nei confronti dei manifestanti che nulla c’entravano con i danneggiamenti.
Tutto si era concluso con la fine di quella manifestazione quindi?
Si, la sera ero in piazzale Kennedy con la collega Alessandra Ballerini, la legale della famiglia Regeni, quando fui raggiunto da una telefonata proveniente dalla scuola Diaz. Ornai era tutto finito e molti erano già andati via. Salimmo immediatamente alla scuola e fummo fermati a circa venti metri da alcuni poliziotti che agitavano i manganelli e ci gridavano minacce. Con la mani alzate e molta calma dicemmo di essere avvocati e riuscimmo a passare. La situazione era abbastanza calma anche se i poliziotti in tenuta antisommossa erano numerosissimi (la strada è stretta) e schierati per impedire l’ingresso nella scuola. Parlai al telefono con il pm, dr. Pinto, il quale mi disse di non preoccuparmi perché si trattava di una semplice perquisizione avendo ricevuto notizia da alcuni abitanti della via della presenza di bastoni e altro. Poco dopo arrivò Graziella Mascia, parlamentare e dirigente nazionale di rifondazione comunista con Agnoletto e cominciammo a negoziare con uno dei responsabili per poter entrare nella scuola. Quando sembrava fossimo sul punto di entrare, arrivò Ramon Mantovani (allora parlamentare di Rifondazione Comunista ndr) il quale gridava insulti ai poliziotti e pretendeva di entrare nella scuola.
Cosa avvenne a quel punto?
La tensione era altissima e lo stesso dirigente a quel punto impedì a tutti noi di entrare. Anzi, fummo spinti verso l’inferriata della scuola Pascoli controllati a meno di un metro da un plotone di carabinieri in tenuta antisommossa. Mentre i poliziotti entravano nella Diaz i carabinieri ci tenevano contro l’inferriata della scuola. Avevo detto loro che se ci avessero caricati in quel punto, ci avrebbero ammazzati tutti. Il loro superiore, non più di 30 anni di età, disse ridendo che spettava a lui dare gli ordini e la nostra vita era nelle sue mani. E’ stato l’unico momento in cui ero quasi certo di compromettere la mia incolumità. Mentre eravamo bloccati e la polizia entrava correndo nella scuola, sentivamo le urla provenire da dentro. Dopo, altri poliziotti, fecero irruzione nella scuola Pascoli dove distrussero tutto, compresi i nostri computer ed estrassero gli hard disk.
Era ormai tardi quando furono chiamate le ambulanze e cominciarono a portare via i feriti, alcuni erano palesemente molto gravi. Altri venivano portati via con i furgoni cellulari.
Verso le 2, insieme alla collega D’Addabbo andammo all’ospedale di San Martino per chiedere notizie dei ricoverati, ma ci fu detto che si trattava di semplici medicazioni ed erano tutti stati dimessi. Purtroppo scoprimmo poi che non era così. Un ragazzo aveva una frattura al cranio, un giornalista alcune costole rotte e ad una ragazza era stato perforato un polmone.
Come evolse la situazione legale?
Nei giorni successivi, sul campo c’eravamo rimasti solo noi avvocati. Qualcuno ci raccontava quello che aveva subito e stilavamo le denunce, ma soprattutto ci occupavamo degli arrestati dislocati nelle varie carceri. Forse neppure noi ci rendevamo conto dell’importanza di quei giorni. Con i colleghi, centinaia da tutta Italia, decidemmo di costituire il Genoa legal team i cui portavoce eravamo io e la collega Laura Tartarini, difensore di Luca Casarini.
La vostra attività quindi non si limitò ai giorni successivi all’evento?
Certo, a ottobre Agnoletto ci convocò a Roma a una riunione presso la sede nazionale CGIL. Eravamo presenti, come delegazione del Genoa legal team, io, la Tartarini e l’avvocato Dario Rossi. Lì trovammo alcuni avvocati milanesi che personalmente non conoscevo, ma erano stati protagonisti negli anni settanta ed era presente anche Giuliano Pisapia. Agnoletto fece un lungo discorso, ringraziandoci per il lavoro svolto, ma in considerazione delle difficoltà processuali da quel momento sarebbero emerse, ci chiedeva di passare la mano. Io mi opposi, dicendo che dopo tutto quello che avevamo fatto, rischiato e subito, avremmo continuato noi e Pisapia mi sostenne. Da allora nacque con lui un’amicizia. Il Genoa legal team ha seguito i processi assistendo le persone offese e difendendo gli accusati. Le sentenze assolveranno la maggior parte dei manifestanti accusati di devastazione e saccheggio e condanneranno molti poliziotti e soprattutto i vertici.
Le chiedo in chiusura una considerazione lapidaria su quanto avvenuto dal punto di vista giudiziario.
Facile, nessun manifestante aderente al black bloc è stato arrestato, né condannato.