Ogni semplificazione ha le sue vittime. Per ora il candidato è l’ambiente
Bisogna partite da un assioma che purtroppo non è generalmente condiviso: quando qualcuno presenta una realtà complessa proponendo di semplificarla c’è da essere sicuri che si tratta di una truffa. La politica presente, ma anche quella passata, fornisce una abbondante quantità di esempi. In particolare quando si parla di fisco.
Il giornalista Sergio Rizzo noto fustigatore dei vizi politici italici, in un articolo “Sfida alla burocrazia” del 30 maggio scorso su Repubblica, si domanda: “perché le semplificazioni del governo Draghi dovrebbero funzionare, a differenza di quanto è accaduto in tutti questi anni?”. Norme strutturalmente analoghe a quelle del decreto governativo sono uscite a più riprese senza risultati sostanziali, i vertici della burocrazia statale sono gli stessi così come le stazioni appaltanti delle opere pubbliche, c’è la “pesante palla al piede della giustizia” a cui sicuramente non basterà la buona volontà del ministro Cartabia. “Dov’è la differenza?”. La risposta minimale sta in Mario Draghi e in una classe politico e burocratica consapevole che un fallimento in questo caso significherebbe una loro probabile fine. Rizzo non lo dice esplicitamente ma quello che è in gioco è proprio lo stato e la nazione italiana nella loro identità. Un po’ come dopo Caporetto o dopo l’8 settembre 1943.
Non vorrei seguire questo filone di ragionamento pur invitante, ma certamente la vicenda dell’applicazione italiana del Recovery Plan sta mettendo in luce contraddizioni che difficilmente il prestigio internazionale di Draghi riuscirà da solo a risolvere.
Il nodo sostanziale è che ci sono 240 miliardi di euro da spendere entro il 2026 raggiungendo gli obiettivi prefissati. Che non sono per niente banali. Il Recovery Plan, e forse è meglio chiamarlo con la dizione NGE, Next Generation Europe, è un programma complesso che mette in relazione tra loro un quadro di opzioni legate alla soluzione di fondamentali problemi ambientali, economici e sociali che angustiano l’Italia di oggi. Sono questioni fortemente connesse peraltro ad una evoluzione non solo europea ma terrestre. Cambiamento climatico, immigrazioni, pandemie, tassazione dei profitti e delle ricchezze, diritti individuali nell’espansione digitale, lotta per il controllo delle tecnologie e delle materie prime, salvaguardia della bio diversità, sono solo alcuni eclatanti aspetti di un mare in cui l’Unione Europea deve navigare convincendo i propri stati azionisti a remare concordemente.
Il battello Italia pare essere decisivo all’interno di questo progetto, ma le questioni di cui l’opinione pubblica sta dibattendo (e la politica sta decidendo) sono ancora preliminari e in parte fuorvianti. Da un lato l’efficienza della “governance” è affidata ad un capo di governo che controlla un riottoso sistema di partiti su un piano di ricatto, “o me o il baratro”, sulla base di un dibattito politico settoriale in cui ogni attore può prendere le distanze dagli altri per le proprie esigenze di consenso elettorale. Dall’altro si è affermato il mito della semplificazione come panacea o farmaco universale per tutti i mali.
L’insieme di “riforme e investimenti” che costituiscono il nostro PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) non sono solo un insieme di scelte tecniche e di distribuzione equilibrata (per geografia o per categorie) di possibilità di “crescita” ma sono anche scelte politiche e amministrative che non dovrebbero essere ribaltate da un ritorno alla “normalità” politica, ma che dovrebbero essere già una sintesi condivisa perlomeno per il medio periodo. La mia impressione è che così non sia, soprattutto per un eccesso di semplificazione che chiamerei soprattutto superficialità.
Voglio limitarmi ad un tema che ritengo di conoscere bene anche nelle sue sfumature psicologiche. Le conoscenze tecnico scientifiche relative ad una missione chiave come quella denominata “rivoluzione verde e transizione ecologica” sono attualmente straordinarie ma la approssimazione comunicativa e politica con cui si affrontano i temi relativi è spesso disarmante. Per banalizzare, ormai il termine “sostenibile” subisce un abuso da “greenwashing” generalizzato. Non è più l’impegnativo aggettivo “zukuntfahiges” (capace di futuro) con cui lo traducevano gli ambientalisti di Friburgo (D) negli anni 90 del secolo scorso.
Nel dibattito italiano si sta imponendo per la sua importanza operativa la questione della semplificazione amministrativa, intesa, come da parte di Rizzo, quale “sfida alla burocrazia”. La vulgata è che non ci dovranno essere funzionari che bloccano le opere previste. Ma la vicenda non può limitarsi ad introdurre norme che obbligano a decidere impedendo il gioco a nascondino. Significa che i procedimenti siano stati esaminati compiutamente in rapporto agli obiettivi da raggiungere e che ci sia un vero salto di qualità nell’operare della pubblica amministrazione.
Ci si accorge in questi giorni proprio della necessità di un enorme cambiamento qualitativo e quantitativo in questo campo ed i numeri dei futuri concorsi o ricerche di esperti per rimpolpare la pubblica amministrazione aumentano ogni giorno. Ma nel frattempo ci si affida a puri tagli temporali nei procedimenti (ad es. per quanto riguarda i percorsi di valutazione ambientale) ed a riduzione di soggetti che intervengono, come nel caso della centralizzazione dei pareri delle Soprintendenze. In altre parole proprio in uno dei campi decisivi del PNRR si risponde ad una sostanziale insufficienza qualitativa di procedure esistenti, peraltro quasi sempre orientate ad un puro formale rispetto di normativa europea, con una specie di promessa di cancellazione. Che è cosa ben diversa dal fare presto e bene.
Sarebbe veramente paradossale che un massiccio piano di investimenti che identifica nella lotta al cambiamento climatico il proprio asse di riferimento trovi la sua vittima sacrificale proprio nell’ambiente e nelle sue complesse interazioni.
Giorgio Cavallo