Primarie Pd, i quattro dell’apocalisse: AAA nuova classe dirigente cercasi… forse
Qualcuno cerca di attribuire il fenomeno dell’assenza di dibattito sulle primarie Pd all’esterno dello stesso, all’arresto di Matteo Messina Denaro, altri alla guerra in Ucraina e alla stucchevole querelle sul messaggio del presidente Zelensky a Sanremo. Oggi si è aggiunta la new entry delle demenziali, quanto non casuali, affermazioni di Giovanni Donzelli di Fratelli d’Italia sui democratici presunti fiancheggiatori di anarchici e terroristi. Ma in realtà a spingere in secondo piano le primarie e con loro la rifondazione del Partito democratico è, udite, udite, il Partito democratico. Ma andiamo per ordine, lungi da noi unirsi al quotidiano assalto da parte dei partiti e dei partitini, che bivaccano ai confini del Pd ansiosi di sottolinearne ogni difetto presente, passato e futuro, nella speranza di strapparne qualche brandello come novelli avvoltoi saprofagi. Anzi ci piacerebbe che le prossime settimane contraddicano quelle passate, vedendo una sincera accelerazione nel dibattito nel Pd, anche se capiamo che in Fvg, le impellenze relative alle elezioni creano una certa ansia. Bisogna dire però che nazionalmente tutto avviene perchè con il suo essere ripiegato su se stesso il Pd è prigioniero dei suoi riti e delle sue regole. Sei mesi e più per attivare un congresso che si sta polarizzando su leader anziché su idee e tesi per cambiare e non solo “governare” il paese, è un errore grave, perchè si è avviato un percorso che, nonostante i proclami, non sta segnando alcuna discontinuità rispetto al passato. Ci dispiace costatarlo, speravamo non fosse così, ma il segnale sembra essere ancora quello che aveva trovato il suo apice nel maghetto della Leopolda Matteo Renzi, erede dell’ideologia tutta berlusconiana del partito personale. Certo il Pd non ha una azienda di riferimento e neppure l’agognata Banca, ma la ricerca dell’uomo (o donna) al comando, resta la stella polare o almeno questa è l’impressione che restituiscono queste primarie. E non si dica non era possibile fare diversamente. A parole tutti, a partire dai quattro contendenti al trono di segretario nazionale, parlano di vera e propria fase costituente avviata e, più meno tutti, sperano che tutto avvenga assicurando la massima apertura del partito ai contributi di cittadine e cittadini, associazioni, forze sociali che “condividono i valori alla base del partito”. Sarà vero, ma in realtà tutto questo se c’è, si vede molto poco. Per non parlare poi della dell’annunciata discontinuità e cambiamento radicale della classe dirigente, dei metodi e delle selezione della stessa. Tutti l’affermano come principio guida, ma nessuno mostra la strada per farlo. Così il rischio che le stesse facce e teste siano nel futuro del “nuovo” Pd è una certezza più che una probabilità. Il rischio che “l’AAA classe dirigente cercasi”, torni a rivolgersi all’usato sicuro, sicuro dei prossimi fallimenti. Del resto a 4 mesi dalle elezioni il Pd si trova esattamente nelle stesse condizioni e, per quanto i sondaggi vadano presi con le pinze, è palese che il dibattito congressuale tutto a guardare il proprio ombelico, non è stato occasione di rilancio esterno, anzi, va notato che rispetto alle elezioni politiche, i consensi sono ulteriormente calati. Nel quadro politico nazionale tutto è rimasto immutato, fatta eccezione per i danni compiuti dai primi 100 giorni del governo Meloni , con il Pd schiacciato tra il Movimento 5 stelle e il Terzo polo che lavorano per conquistarne l’elettorato approfittando della debolezza strategica che non è riuscita neppure a parare la fake del “Pd unico perdente”. Non si è stati mediaticamente in grado di contrastare la narrazione giornalistica e social mendace che ha fatto apparire i Dem unici sconfitti il 25 settembre scorso, quando invece uscendo dalla gabbia delle percentuali e guardando ai voti assoluti, il calo per il Pd è di circa 800mila voti, mentre i Cinquestelle, che gridano vittoria, in realtà ne perdono oltre 6 milioni. Guardando sempre ai voti, e non alle percentuali, non è che nel centrodestra ci sia tanto da rallegrarsi. Fatta eccezione per la furba Meloni e ai suoi Fratelli d’Italia a cui è andata davvero bene, avendo raccolto quattro volte i voti del 2018: da 1.429.550 preferenze a 7.300.628. In termini assoluti però l’exploit di Fratelli d’Italia vale circa 5 milioni e 900mila voti in più rispetto alle elezioni di quattro anni fa. Una crescita che si sovrappone al calo degli altri due partiti della coalizione, Lega e Forza Italia, che vedono sparire complessivamente 5 milioni e mezzo di consensi. Non essere riusciti ad imporre queste verità numeriche sono la reale cifra di una crisi che passa anche dalla gestione delle comunicazione che continua ad essere snobbata. Il centro sinistra, nel complesso, in epoche ormai remote, possedeva una dirompente forza mediatica, attraverso suoi giornali e media di riferimento. Ormai da tempo si è ripiegato sulla comunicazione istituzionale e, oggi, che il vento soffia in altro senso, non è più in grado di parlare neppure al suo popolo con propri mezzi o senza pagare dazio. Purtroppo si parte parecchio svantaggiati perchè Il Partito Democratico non assomiglia neppure lontanamente agli strati sociali più deboli che vorrebbe rappresentare e difendere. Impietosa l’analisi sui suoi gruppi dirigenti che gira in queste ore: sono costituiti prevalentemente da liberi professionisti, docenti e funzionari pubblici. Abbondano gli avvocati, che in Italia sono lo 0,4% della popolazione ma nel Pd pesano per il 19%. Di operai, manovali, infermieri, rider, badanti o camerieri non c’è traccia: sono lo 0,2% dei dirigenti e degli eletti. Certo per analizzare i problemi di povertà e diseguaglianza non serve necessariamente essere poveri e sfruttati, ma conoscere ed immergersi in quel mondo è fondamentale. Ma forse non è tardi, avendo da sempre guardato ai valori delle sinistra, vogliamo sperarlo, perché nonostante in molti pensino diversamente il Pd resta elemento fondamentale per le speranza di chi crede nel superamento delle diseguaglianze e nella necessità di riaffermare una via diversa a quella del più o meno turbo capitalismo. Per farlo serve davvero discontinuità, serve davvero una potente autocritica. Facciamo un esempio: Elly Schlein che è certamente il nome meno “compromesso” con il passato, ha detto che “il job acts è stato un errore”, ha accentuato precarietà e diseguaglianze. E’ certamente vero, ma per essere credibili non basta che ad affermarlo sia la “leader”, ma anche chi dichiara di appoggiarla. Il pensiero corre agli Orlando e Franceschini e non solo, che oggi l’appoggiano. Così vorremo capire se il nuovo segretario/a, chiunque esso sia, darà seguito alle promesse di scrollarsi una classe dirigente che ha fatto il suo tempo e che è inchiodata alle poltrone, soprattutto parlamentari, ma anche agli altri livelli istituzionali Regioni comprese. Come pensa di limitarne l’azione. Sarà complicato, non solo perchè quei parlamentari calati dall’alto pochi mesi fa, si presume si dovranno tenere per l’intera legislatura, ma soprattutto perchè non ci sono volti nuovi all’orizzonte dopo che il Pd ha accettato che si demonizzasse il professionismo in politica. Si è rinunciato a formare i propri quadri e lasciato la comunicazione a se stessa. C’è di che meditare e temere. Perchè se Atene piange, questa volta Sparta se la ride alla grande.