Quattro sorelle in fuga dall’Afghanistan
Donne in Afghanistan, quando si dice il coraggio della disperazione e, nello stesso tempo, davanti agli occhi l’incubo di essere bloccate, colpite, violentate da esseri minacciosi che possiedono solo una qualità, la forza bruta.
Quattro sorelle in fuga da Kabul diventate per alcuni di noi, impegnati giorno e notte a farle uscire, figlie, sorelle, compagne da salvare.
Questa è la storia di Bibi (nome fasullo) e delle sue sorelle a Kabul, città assediata e in breve tempo occupata dai talebani nel giro di una settimana, con il governo legittimo completamente inadeguato, pronto subito a dissolversi.
E cosa resta da fare a quattro sorelle di una famiglia laica, donne che hanno studiato e lavorato nelle stanze degli Europei?
Un detto friulano, rivolto ai friulani poveri vessati da calamità naturali e padroni senza cuore, dice:” Cjape al sac e va’ pal mont”.
E allora, disperate, consapevoli della provvisorietà della loro esistenza e della gravità della loro condizione, le sorelle, di cui tre non sposate e una sposata e all’ottavo mese di gravidanza, donne laiche, culturalmente preparate, devono evacuare, non possono restare e rischiare “l’incontro” con i talebani. Devono espatriare.
Gli Stati europei si fanno sorprendere impreparati di fronte agli eventi, ma devono poi assumere le proprie responsabilità ed avviare i percorsi di protezione e l’evacuazione per i loro collaboratori afgani.
Nulla è scontato, nelle vicende drammatiche si sommano incredibilmente gli ostacoli.
Come prelevare i propri risparmi? Come raggiungere l’aeroporto? E chi garantisce la certezza di essere inserite nelle liste di imbarco?
I soldi sono semplicemente spariti dai loro conti, ma per fortuna non mancano, come talvolta nelle favole, le persone buone tra cui la cooperante loro amica, che dall’Olanda non le molla e aggrega una squadra di volontari della cooperazione, la parlamentare italiana che assicura il loro inserimento nelle liste di imbarco, il rappresentante della Nato, coinvolto e disponibile.
Si aggiungono altri “ma…” ancora una volta.
Il primo tentativo di imbarcarsi fallisce, le quattro donne si trovano schiacciate nella folla vociante e stremata che cerca di fuggire, con gli americani a bordo della pista un po’ troppo sbrigativi nell’arginare la massa umana e i talebani che non risparmiano bastonate e frustate sui dorsi indifesi e colpiscono in pancia la sorella gravida, fortunatamente senza danni come accertato poi.
Di nuovo in fuga, disperate, nel loro nascondiglio, di nuovo in preda a un indicibile sconforto.
Sono però troppo determinate per arrendersi, anzi sono proprio loro a confortare la loro amica europea, ormai sfinita.
“Dobbiamo lottare per la vita” dice la sorella più grande, guardando la sorella che porta in grembo la piccola. Ritentano la spedizione verso l’aeroporto tra l’angoscia di chi le pensa nelle strade ostili di Kabul. Ecco l’aeroporto, si stringono tra di loro, trovano uno spazio, riescono a entrare, fiduciose in un mondo diverso, da due giorni sono a Roma, sistemate in quarantena in un luogo protetto.
Ed ecco ancora un implacabile “ma”, il padre delle sorelle e il marito della sposata non sono stati evacuati e sono rimasti a Kabul. E il nostro pensiero va a tutte le donne di Kabul senza un’amica europea.
Emilia Accomando
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