Referendum flop, crolla l’affluenza. Nuova sconfitta leghista, il quorum non è stato raggiunto e il referendum è stato solo un inutile costo
I referendum sulla Giustizia e sull’abolizione della legge Severino proposti da Lega e Radicali fanno flop che più flop non si può. Varie le ragioni del fallimento, in testa il fatto che i quesiti erano decisamente poco comprensibili, la ormai conclamata usura dello strumento referendario così come è utilizzato dai promotori e la scarsa mobilitazione dei partiti, anche da parte di quelli che li avevano promossi che in realtà non ci credevano manco loro. Ma c’è un dato politico inoppugnabile, l’ennesimo fallimento targato Lega di Matteo Salvini. Un nulla di fatto che ampiamente previsto dagli osservatori e che si è concretizzato sin dalle 12 di ieri, quando a livello nazionale avevano ritirato le schede con i cinque quesiti nemmeno il 7% degli aventi diritto e che alle 19 è diventato ancora più concreto, con l’affluenza arrivata a livello nazionale solo al 14,5% per poi fermarsi a urne chiuse a circa il 20%. Una debacle che nonostante i patetici tentativi della Lega di imputare il fallimento alla “scarsa comunicazione” e ai pochi approfondimenti che sarebbero stati dedicati da stampa e Tv ai quesiti, tesi utilizzata già preventivamente per preparare il terreno della sconfitta rivolgendosi, nell’imminenza del voto, a Sergio Mattarella e a Mario Draghi, chiedendo loro di lanciare un appello agli elettori affinché non disertassero le urne. In realtà Salvini & c sapevano benissimo che quei quesiti referendari erano un errore clamoroso perchè chiamare il “popolo” a scegliere su temi di enorme complessità e strumentalità è un errore non foriero di conseguenze, perchè porta al disinteresse degli elettori alimentando l’abitudine all’astensione. Già nelle scorse settimane più di qualcuno faceva notare che la complessità di alcuni quesiti referendari alimentavano nei cittadini un sentimento di inadeguatezza rispetto alle questioni al centro dei quesiti e che se in Italia le competenze linguistiche e scientifiche sono inferiori alle media dei 36 paesi Ocse, è facile intuire quali siano le competenze in ambito giuridico e istituzionale. Fra l’altro perfino molti politici fra gli stessi promotori faticavano a spiegare con parole comprensibili i quesiti e non basta più la fiducia nel proprio partito di riferimento per convincere il cittadino al voto su qualcosa che non capisce appieno. Forse però questo ennesimo flop potrebbe essere utile a ragionare sullo strumento referendario il cui abuso è evidentemente usurante per lo stesso strumento che, sulla carta, dovrebbe essere la massima espressione democratica. Basti pensare che nell’Italia repubblicana abbiamo fatto ricorso al referendum abrogativo ben 18 volte per un totale di 72 quesiti con un visibile declino partecipativo. Dal 1974 al 1995 in Italia si sono tenute nove consultazioni referendarie, con un’affluenza media di poco superiore al 70%, delle quali una sola risultò non valida, mentre negli ultimi 15 anni la situazione è cambiata radicalmente dato che delle nove consultazioni abrogative sette alle quali si aggiunge quella di ieri, sono risultate non valide. Se poi guardiamo all’ultima consultazione valida, quella del 2011, gli elettori votarono perchè chiamati ad esprimersi su temi di facile comprensione, dall’abrogazione della gestione privata dell’acqua, a quella delle norme che consentivano la produzione di energia elettrica con il nucleare. Ma c’è anche un altro dato che dovrebbe far ragionare il mondo della politica, il fatto che i cittadini sono grandemente disillusi e che il “tanto poi fanno quello che vogliono” è frase che si sente sempre di più pronunciare nell’ormai larghissimo popolo dell’astensione permanente. La disillusione non è totalmente priva di giustificazione dato che nonostante la chiarezza della scelta popolare in passato furono poi introdotti provvedimenti legislativi che dell’esito referendario facevano spallucce. Anche oggi fra l’altro sull’acqua e sul nucleare c’è chi vorrebbe ridiscutere perchè, certi interessi sono duri a morire.
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