Sipario su “Trieste Running Festival 2019”. Resterà alla storia come l’edizione infame del tentato apartheid sportivo
“L’importante non è vincere, ma partecipare” il motto attribuito erroneamente al barone Pierre De Coubertin, forse sembrerà desueto o ingenuo, ma comunque è presente ancora oggi nel Giuramento Olimpico a distanza di un secolo. A ben vedere, sembra sia stato dimenticato come spirito fondante della competizione sportiva. E’ scontato, ma non certo giusto, che i grandi interessi in sport come il Calcio o la Formula Uno abbiano dimenticato lo spirito olimpico sacrificato sull’altare del capitalismo sportivo, degli interessi televisivi o in quelli di sponsor milionari, ma l’atletica sembrava essere solo lambita. Fra gli sport piace pensare essere quella più “naturale” di tutte, e la maratona, nelle sue varie declinazioni, sembra incarnare ancora lo sport semplice ed autentico, fatto di fatica, sudore e solidarietà. Tutto questo almeno finchè è stato per davvero scoperchiato un vaso di Pandora, ma non quello evocato dal patron della Trieste Running Festival, la favoletta insulto all’intelligenza, secondo cui per difendere gli atleti africani da “vampiri” manager bisogna escluderli dalle gare. Sappiamo come è andata la vicenda, l’esclusione annunciata di atleti di colore , lo sconcerto nazionale d internazionale, le accuse, giuste, di razzismo e il dietrofront precipitoso. Non prima che Trieste e il Fvg, con un danno di immagine enorme, venissero additate a livello globale come la nuova frontiera del razzismo, una sorta di “Alabama” di antica memoria nel cuore della vecchia Europa. Così gli sponsor hanno giustamente minacciato di lasciare, per il danno d’immagine subìto, e da questo il dietrofront con la risibile scusa di aver voluto fare una “provocazione”. Oggi comunque si è svolta la gara ed è stata in tono minore e non solo per il maltempo che ne ha caratterizzato lo svolgimento. In realtà le nubi nere non erano solo quelle che coprivano il cielo, ma anche quelle che si addensano pesanti sulla coscienza di chi ha determinato questa situazione e che anziché chiedere scusa, fa la vittima. Ma più che del singolo, ancora più grave, è l’atteggiamento politico di chi, colpevole se non altro di “omesso controllo”, continua a fare il “pesce in barile” e scarica le “colpe” su quanti quella vicenda hanno additato per quella che è, uno enorme scivolone sulla saponetta orrida del razzismo. Il risultato è stato quello di una gara con atleti imbarazzati, alcuni dei quali hanno partecipato dipingendosi la faccia di nero in segno di protesta e per marcare una differenza, mentre altri la gara l’hanno proprio disertata. Del resto l’ondata di sdegno sulla vicenda ha interessato anche il mondo sportivo, in genere schivo, ma che in questa occasione non ha esitato, in larga maggioranza, dallo schierarsi dalla parte giusta. Emblematico ad esempio quanto dichiarato nei giorni scorsi da Giorgio Calcaterra, 47 anni, forse il più famoso runner italiano, atleta dei tre titoli mondiali della 100 chilometri e delle 250 maratone in carriera. Calcaterra all’indomani dell’annunciata decisione di oscurantista “apartheid” sportivo spiega: «Ho gareggiato con e contro atleti africani: keniani, etiopi, marocchini e algerini che in molti casi vivevano nel nostro Paese e che a volte vedevi arrivare alla partenza dopo aver viaggiato tutta la notte in treno. Ho lottato fianco a fianco per anni con tanti di loro sui percorsi e sui traguardi di maratone e mezze maratone in ogni angolo d’Italia. A volte vincevo io, a volte loro. Mai ho assistito a episodi di razzismo o intolleranza, soprattutto mai avrei voluto che un organizzatore escludesse qualcuno per far spazio a me o a un altro italiano: sarei morto di vergogna e avrei sentito la vittoria come meno importante. La corsa unisce, non divide, fatica, dolore e gioia sono uguali per tutti». «I manager dell’atletica — spiegava Calcaterra, fanno il loro mestiere: procurare lavoro a ragazzi che gareggiano cercando premi e ingaggi che non sono in grado di procacciarsi da soli per scarsa conoscenza della lingua e perché contrattare un ingaggio non è il loro mestiere. Ci sono delle regole stabilite dalla federazione internazionale, se qualche manager non le rispetta e li sfrutta o li maltratta va allontanato per sempre. Ma prima di tutto sono gli atleti a dover essere rispettati».
Così dopo una settimana di follia, purtroppo sempre più ordinaria in un Paese dove sembra prevalere l’oscurantismo e che sembra aver perso la bussola dei valori, di giusto c’è solo il risultato del cronometro, con tre atleti africani, fra quelli riammessi precipitosamente in gara, che hanno occupato i tre posti più alti del podio. Ma questo non basta di certo per rimediare alla figura rimediata dal Friuli Venezia Giulia che merita certamente di più. Insomma la Trieste Running Festival non può essere oggi considerata una festa dello sport perchè i fondamentali sono stati infangati e temiamo non potrà più esserlo neppure in futuro se non si compierà una svolta profonda che non può passare che attraverso il ricambio della dirigenza. Vedremo se questo avverrà, ma non ne siamo certi, perchè, citando il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer, “L’ottusità dello spirito va sempre unita all’ottusità del sentimento e alla mancanza di sensibilità” e tutto questo, in questo momento storico, è quanto impera a Trieste e nel resto della regione e oseremmo allargarci all’intero paese.
Fabio Folisi