25 anni dall’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, anche #NOINONARCHIVIAMO

 

Domani, giovedì 14 marzo alle 17.30, si svolgerà nella Sala Stampa della Camera dei Deputati (ingresso da via della Missione 4) la conferenza stampa di presentazione delle iniziative promosse in occasione dei 25 anni dall’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, la giornalista e l’operatore del Tg3 uccisi a Mogadiscio il 20 marzo 1994 in circostanze ancora da chiarire.

Alla conferenza stampa, promossa dall’onorevole Walter Verini e dalla Federazione nazionale della Stampa italiana, saranno presenti, fra gli altri: il segretario generale e il presidente della Fnsi, Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti; il segretario dell’Usigrai, Vittorio Di Trapani; il segretario del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, Guido D’Ubaldo; la presidente dell’Ordine dei giornalisti del Lazio, Paola Spadari; la portavoce di Articolo21, Elisa Marincola; Francesco Cavalli, già presidente del Premio Alpi.

Sarà anche l’occasione per presentare l’atto, preparato dall’avvocato Giulio Vasaturo per conto di Fnsi e Usigrai, di opposizione alla richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura di Roma.

Mancano i mandanti dell’omicidio dell’inviata del Tg3 in Somalia, Ilaria Alpi uccisa a poca distanza dall’ambasciata italiana di Mogadiscio da una raffica di kalashnikov insieme all’operatore Miran Hrovatin. Nessuna certezza è arrivata da processi e commissioni parlamentari su chi avesse ordinato l’omicidio, ma anche su chi fossero i sette uomini del commando che sparò al fuoristrada dei giornalisti.

Come è noto è stato anche incolpato un innocente: Omar Hassan Hashi è stato condannato nel 2003 a 26 anni di carcere. Nel 2015, il programma tv Chi l’ha visto? Ha rintracciato il suo principale accusatore e questo ha ritrattato dicendo di essere stato pagato per mentire. Solo nel gennaio del 2018 Hashi è tornato in libertà e gli è stato assegnato un risarcimento di tre milioni 181mila euro. Dopo quei fatti la procura di Roma aveva aperto dunque un nuovo fascicolo, ma il 4 luglio 2017 ne aveva chiesta l’archiviazione. Secondo quanto ha scritto il pubblico ministero Elisabetta Ceniccola: «Dopo 23 anni è impossibile accertare killer e movente e non c’è nessuna prova di depistaggi». Anche il supplemento di indagini non ha sortito effetti ed oggi c’è il rischio che l’inchiesta si fermi definitivamente. Per questo Mariangela Gritta Grainer, una coraggiosa parlamentare che ha animato la prima commissione di inchiesta ed erede dell’impegno della famiglia Alpi, ha deciso di lanciare una petizione pubblicata sulla piattaforma Change.org per chiedere che le indagini possano proseguire e che quanto meno siano indicati pubblicamente i nomi di chi ha deliberatamente nascosto o occultato le prove, senza riguardo ai loro incarichi presenti e passati, politici e militari.

E’ stato presto chiaro fin dai primi momenti dell’inchiesta oltre 20 anni fa che era il lavoro di Ilaria e Miran la causa della loro morte. Erano in Somalia per documentare il ritorno in patria del contingente italiano, ma seguivano anche un’altra inchiesta su un traffico di armi e rifiuti tossici tra Italia e Somalia. Sarebbero stati coinvolti i signori della guerra locali e navi provenienti dall’Italia con dietro l’ombra sinistra dei servizi segreti. Una settimana prima di essere uccisi avevano incontrato Abdullahi Moussa Bogor, «signore» della città di Bosaso. Tema dell’intervista una nave sequestrata dai pirati che poteva essere stata usata per traffici illeciti.

L’AGGUATO
Era il 20 marzo del 1994 quando un commando di sette uomini fermò la jeep con a bordo Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. I due erano a Mogadiscio, non distanti dall’ambasciata italiana. Furono uccisi a colpi di kalashnikov.
Chi aveva conoscenza della situazione somala disse subito che non poteva essere stata una rapina, ma che certamente avevano scoperto o toccato interessi che non dovevano essere rivelati. Durante il rimpatrio delle salme in Italia furono aperti i sigilli dei bagagli e scomparve le registrazioni e gli appunti dei giornalisti.

Non portavano a nulla le indagini fino al gennaio 1998. È il momento della svolta apparente. Una delle tre persone portate in Italia dall’ambasciatore Giuseppe Cassini è Omar Hassan Hashi. Deve testimoniare delle violenze del contingente italiano nel suo paese. Con lui ci sono l’autista di Ilaria e Miran, Sid Abdi, e un testimone oculare dell’agguato, Ali Ahmed Ragi. Gli ultimi due dicono che Hashi era uno dei sette uomini del commando. L’arresto è immediato.

Nel luglio del 1999 Hashi viene assolto dal Tribunale di Roma perché tre testimoni dicono che era a 200 chilometri dalla capitale il giorno dell’agguato e sono testimoni più credibili di quelli che lo accusano, in particolare Gelle che ha più volte cambiato versione dei fatti ed è fuggito prima di testimoniare in tribunale. In appello la sentenza è rovesciata e la Cassazione conferma poi la condanna a 26 anni di carcere. Siamo nel 2003.

Nel gennaio del 2004 viene istituita in Parlamento una Commissione d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. A presiederla è Carlo Taormina di Forza Italia. Nascono da qui i dubbi sulla veridicità delle testimonianze che indicavano Hashi come membro del commando. La commissione non trovò però né mandanti né movente. Sentenziò anzi che i due giornalisti non stavano facendo nessuna inchiesta, ma che erano in vacanza.

I risultati della Commissione permettono però la riapertura del caso. Già nel dicembre 2007 ne viene chiesta l’archiviazione, respinta dal Gip Emanuele Cersosimo che scrive: «Fu un omicidio su commissione» di chi voleva far tacere i due reporter. La conferma arriva anche dalle note del Sismi, il servizio segreto militare desecretate nel dicembre 2013: «Ilaria Alpi è stata uccisa perché indagava su un traffico di rifiuti e armi. I mandanti vanno ricercati tra militari somali e cooperazione». Nelle note del Sismi del 1994 ci sono i nomi di 4 somali, tra cui un noto trafficante d’armi e quelli di due imprenditori italiani: Ennio Sommavilla e Giancarlo Marocchino. Il mandante sarebbe il generale Aidid, signore della guerra somalo.

È il marzo del 2015 quando il programma Chi l’ha visto? mostra l’intervista a Gelle il testimone che accusava Omar Hashi e che ora ritratta: la sua testimonianza era frutto di un accordo con l’ambasciatore italiano in cambio di un visto per lasciare il paese. «Non ero presente sul luogo dell’omicidio, il nome di Hashi mi è stato fatto dall’ambasciatore». Gli avvocati di Hashi chiedono la revisione del processo e, nel gennaio del 2017, la Corte d’Assise di Perugia lo rimette in libertà provando che il coinvolgimento dell’uomo è stato un depistaggio.

Dopo la liberazione di Hashi la Procura di Roma riapre le indagini, ma il Pm Ceniccola chiede l’archiviazione già nel luglio del 2017 perché non ci sarebbero prove di un depistaggio, prove che la parte contraria vede già solo nella facilità con cui una trasmissione tv ha rintracciato a Birmingham il testimone chiave che in teoria doveva essere sotto il controllo delle forze dell’ordine nel periodo passato in Italia e che invece è fuggito senza testimoniare in tribunale. La decisione nell’aprile di un anno dopo. Il resto è cronaca recente.