A giocare col fuoco..
Succede che si rischia di provocare un incendio e di non essere in grado di controllarlo. Quando ero piccolo, mia madre, che ovviamente mi conosceva bene, si assicurava che durante la sua assenza non avessi accesso a fiammiferi o a fonti di fuoco. Questo per evitare che potessi provocare danni che poi sarebbero stati difficili da contenere. Si chiama precauzione e parrebbe una cosa scontata.
Non altrettanto scontata invece pare sia nelle menti di gran parte dei condottieri o governanti che dir si voglia. Pare che invece di fare in modo di evitare che si accendano pericolosi focolai considerandoli probabilmente innocui, inconsapevolmente (almeno si spera) li ignorino e li lascino colpevolmente propagare. Succede dunque che quando si rendono conto, sempre ammesso che ci riescano, che anche chiamare i pompieri sia praticamente inutile, si arrocchino dietro a presunte responsabilità altrui spesso alimentando le stesse fiamme.
Stiamo ad un millimetro dall’allargamento di conflitti che avrebbero conseguenze disastrose non solo per le persone che potrebbero subire le conseguenze più terribili e dirette, ma in maniera obliqua riflettersi anche su di noi che ci riteniamo al massimo spettatori esterni. Pare che al posto della ragione, si preferisca puntare sull’azzardo, nemmeno questo pianeta fosse un enorme casinò. Siamo portati a pensare che prima o poi la fortuna passi dalle nostre parti, senza tenere conto che chi vince di sicuro è sempre e comunque il banco.
Sarebbe forse il caso di fermarci un attimo e riflettere; pensare se le scelte che facciamo siano davvero opportune, se l’ostinarsi a sostenere posizioni ormai evidentemente non solo sbagliate ma addirittura controproducenti non abbiano bisogno di essere riconsiderate e riviste.
Proviamo solo cercare di analizzare, anche senza entrare nel profondo delle questioni per ovvi motivi di spazio, almeno le situazioni di crisi che ci sono maggiormente vicine. Allargare lo spettro geografico sarebbe davvero eccessivo.
Partiamo dalla Palestina, sì perché ormai parlare di Gaza e basta non è più sufficiente, la mattanza continua non solo nella Striscia ma anche nella Cisgiordania e si sta velocemente spostando verso nord, al Libano. È passato quasi un anno dal 7 ottobre e dall’insensato macello prodotto da Hamas nella parte meridionale di Israele. Ad oggi sono più di 41.000 morti palestinesi accertati e probabilmente altri 10.000 di cui ormai non si ha notizia in quanto seppelliti dalle macerie delle loro case. La mattanza continua a ritmi da macelleria e non pare placarsi. Si blatera continuamente di colloqui tra le parti che dovrebbero portare non si capisce bene a quale cessate il fuoco. Ogni qualvolta sembra che un vero spiraglio si possa aprire, arriva puntuale l’azione dell’esercito o dell’intelligence di Tel Aviv che fa precipitare la situazione e come nel gioco dell’oca, fa tornare i partecipanti alla casella iniziale. Non solo, ma invece che applicare sanzioni agli autori delle stragi, si continua a rifornirli di armi che vengono usate contro chi la guerra la subisce. Ciò che spaventa di più, è il silenzio colpevole da parte di coloro che si sentono i paladini dei diritti e delle democrazie, noi.
I tribunali internazionali accusano i maggiori colpevoli dei misfatti chiedendone l’arresto e gli stessi soggetti vengono ricevuti in pompa magna nelle sedi che dovrebbero rappresentare l’apice delle istanze democratiche, come negli USA. Il silenzio, come diceva Bohumil Hrabal, è assordante.
Israele fa di tutto per alimentare la tensione con Hezbollah; tipacci per niente simpatici, ma comunque unica realtà che è stata in grado di infliggere a Tel Aviv sconfitte cocenti e parte integrante sa dell’esercito che della vita politica libanese . Il vero obiettivo è in realtà l’Iran che cosciente del fatto che uno scontro con Israele significherebbe affrontare gli USA e che nonostante le ripetute provocazioni israeliane, per ora è riuscito a non rispondere adeguatamente. Senza un intervento esterno serio, non come le pagliacciate propinateci dai vari consiglieri di Stato e portavoce del Presidente Biden, il rischio che Teheran nonostante tutto possa prendere decisioni che porterebbe tutta la Regione Mediorientale verso una tragedia le cui dimensioni sfuggono ai più.
Spostiamoci ad est, da due anni e mezzo continua senza sosta la criminale invasione russa in Ucraina; la gente crepa, le bombe continuano a cadere, la guerra è diventata quasi strisciante, ma solo per noi che la viviamo da assonnati spettatori, non certo per coloro che hanno perso tutto e di cui sono pochi a preoccuparsi. L’unica idea che frulla nelle si suppone floride menti dei decisori, di chi ci rappresenta insomma, è quella di continuare a fornire armi all’Ucraina che certamente è la vittima, ma che in questo modo impedisce che si possa almeno pensare ad un processo di pace, unica via che possa condurre alla fine del conflitto. A cosa porterà poi questo processo, è ancora tutto da vedere, ma più si va avanti a scannarsi e più complicato sarà trovare una soluzione equilibrata più che equa. Intanto questo conflitto sta svenando le casse dei vari Paesi che rimpinzano gli arsenali ucraini senza peraltro procurare grandi effetti sul campo. Anzi e nonostante azioni che sembrano realizzate apposta più per soddisfare la propaganda che a produrre risultati importanti. Dell’azione ucraina verso Kursk, non si sente più parlare. Nessun dubbio che Putin sia un avanzo di galera e che quella dovrebbe essere (in buona compagnia peraltro) la sua destinazione, non solo per quanto sta facendo in Ucraina, ma per quello che sta facendo al suo stesso popolo. Detto ciò, credo che ogni persona di buon senso possa capire che questo conflitto, come quello tra Israele e i palestinesi, non sarà risolto militarmente, ma può trovare un suo termine solo a livello diplomatico, in parole povere con un accordo di pace. Certo difficile da immaginare ora, ma se l’Unione Europea invece che inseguire gli obiettivi della Nato (che certo hanno avuto un grosso peso nel provocare l’invasione russa), proponesse seriamente un tavolo di negoziati, probabilmente una soluzione si troverebbe. E forse anche la UE potrebbe trovare un suo senso politico. Invece la discussione verte sul consentire o meno agli ucraini di usare le armi a lungo raggio in grado di colpire la Russia al suo interno. A mio modesto avviso Kiev questo “diritto” ce lo avrebbe già, ma le conseguenze di un atto del genere sicuramente porterebbe a una reazione di Mosca ancora più pesante. Quando Putin minaccia di ricorrere al nucleare, si pensa e si spera che parli di un’ipotesi teorica e impossibile praticamente da applicare; è una tale follia che non ci si può neppure pensare. Il fatto è che il mondo (e la Russia per prima) è pieno zeppo di quelle armi ed averne il controllo totale non è facile. Dunque, la possibilità che per un calcolo errato, per un’interpretazione malintesa o per chissà quale motivo si possa fare la mossa sbagliata, esiste. Come già successo nel passato quando siamo stati ad un niente dalla catastrofe.
Nel frattempo Mosca non ha solo interessi legati ai suoi confini, ma sta dilagando, senza per ora grandi successi, nel Sahel e in alcuni Stati limitrofi. La situazione in Mali, Niger, Burkina Faso in particolare, ma anche in RCA (Repubblica Centro Africana), in Sudan e Libia va da caotica a drammatica. La presenza russa che in questi casi veste le divise della ex Wagner, ora Africa Corps, e che combatte al fianco delle truppe regolari di alcuni di quei Paesi viene definita, dai russi e dai vari governi locali, è giustificata dalla cosiddetta lotta al terrorismo. Ognuno di questi Stati vive una situazione particolare; i primi tre sono governati da giunte militari arrivate al potere grazie a colpi di stato che hanno defenestrato i precedenti presidenti ed hanno di fatto cacciato i francesi che da quelle parti avevano ancora una discreta presenza militare. Presenza che garantiva il mantenimento degli interessi di Parigi, residui della grandeur francese e del periodo coloniale. Nella regione, i francesi mantengono ancora parecchio potere, espresso per esempio nel controllo della moneta regionale il franco CFA che include 14 Paesi africani ripartiti fra la Comunità Economica e Monetaria dell’Africa Centrale (CEMAC) e l’Unione Economica e Monetaria dell’Africa Occidentale (UEMOA). La Francia garantisce il cambio fisso della valuta comune e l’aggancio (dunque la stabilità della moneta) all’euro. Da parte sua si riserva di controllare tramite la sua banca centrale sia lo XAF che lo XOF rispettivamente moneta dell’unione dei Paesi centrafricani e quella dell’Africa Occidentale. È infatti in atto un dibattito tra i protagonisti della Regione sull’abbandono della moneta unica o perlomeno sostituirla con una nuova divisa che allontanerebbe Parigi dal controllo di fatto sulle locali economie.
Tutta la fascia di quella parte dell’Africa detiene immense ricchezze che fanno gola a tutti; non è un caso che per esempio l’agguato nel nord est del Mali dello scorso Luglio alle truppe governative e ai loro alleati dell’Africa Corps sia avvenuto nei pressi di una delle più grandi aree aurifere di quello Stato. Le perdite subite dalle forze armate maliane e soprattutto dell’ex Wagner sono state enormi. Solo tra i mercenari russi sono stati circa 90 i morti, quelli dell’esercito maliano non hanno nemmeno un numero preciso.
Ciò che è interessante sottolineare, è che gli attacchi sono stati portati da cosiddetti ribelli Tuaregh legati ai gruppi di Al Qaeda e dell’Isis anche loro evidentemente interessati alle ricchezze del sottosuolo di tutti quei Paesi attraverso le quali, come del resto Africa Corps, finanziare le loro milizie. Probabilmente la scelta da parte dei governi di quell’area di legarsi ai russi non è stata lungimirante, certo è che del neocolonialismo ormai tutti ne hanno piene le scatole e chi si presenta come supporto alla lotta contro gli avversari, è il benvenuto. Dall’altra parte, appoggiare le rivolte dei ribelli, che avranno anche i loro motivi per schierarsi contro le autorità locali e spingerli verso gruppi come quelli di fanatici terroristi, come ci insegna la recente storia, non pare una scelta illuminata. Perché questi gruppi come dimostrato in atri contesti, non nascono da soli e soprattutto senza appoggi esterni non potrebbero andare lontano.
Se non si controllano certi fenomeni, si rischia di doversi trovare risucchiati in situazioni esplosive, soprattutto in aree in cui l’instabilità è estrema e la cui fragilità rischia di infrangersi in un attimo.
Un accenno particolare dovrebbe essere dedicato a quanto avviene in Sudan e alle atrocità che, anche qui nel quasi totale disinteresse, si stanno compiendo da un anno e mezzo. Dodici milioni di sfollati, Khartoum ed Omdurman (di fatto un’unica città divisa solo dal Nilo) sconvolti dai combattimenti, il Darfur messo sotto sopra, nemmeno ne avesse avuto bisogno, dalle truppe delle “Forze di sostegno rapido” di Mohamad Hamad Dagalo (detto Hemedti) che combatte ferocemente contro le forze governative del generale Abdel Fattah al-Burhan. Gli interessi “esterni” anche qui hanno il loro bel peso. Wagner, nella sua versione locale, ha sostenuto le truppe di Hemedti (con il supporto degli Emirati Arabi anche se Abu Dhabi nega) in tutti i massacri perpetrati soprattutto in Darfur, per poi cercare un accordo con l’esercito “regolare” che controlla la zona di Port Sudan, principale porto sudanese sul mar Rosso dove Mosca avrebbe intenzione di ufficializzare la sua presenza costruendo una sua base navale. Dalla parte opposta, quella “governativa” storicamente legata e sostenuta dall’Egitto, pare avere ricevuto armi anche dall’Iran. Solo recentemente gli USA, probabilmente preoccupati dall’espandersi della presenza di loro avversari, hanno deciso di inviare un loro rappresentante, uno dei tanti in giro per il globo, per cercare un cammino verso un accordo tra le parti. Intanto però i combattimenti continuano ed anzi sembrano aver ripreso maggior vigore.
Ci sarebbe molto altro ovviamente, ma inutile creare ulteriore confusione in un contesto in cui è facile perdersi. Certo, varrebbe la pena di fermarsi un momento e riflettere, pensare che un sistema ci deve essere per ridare un minimo di stabilità e tranquillità e cominciare a schierarsi contro le follie che ci si presentano davanti. Ridare credibilità alle parole che troppo spesso rimangono tali senza concretizzarsi in atti reali.
Un passo fondamentale per rivitalizzare e rendere credibili i maggiori interlocutori, potrebbe magari essere una seria riforma delle Nazioni Unite, certamente non nella maniera suggerita dall’ambasciatrice USA all’ONU che ha proposto di inserire permanentemente due Paesi africani nel Consiglio di Sicurezza, ma…. senza potere di veto. Insomma, come sostiene l’ex ambasciatrice dell’Unione Africana negli USA: “sarebbe come invitare a pranzo qualcuno e lasciarlo guardare gli altri che mangiano”. Di fatto, quello che succede oggi senza nemmeno ricorrere a questi assurdi inviti.
Invece, probabilmente per trovare una via alla pace che a noi rimane oscura, ci chiedono di “dedicare” il 2% del PIL alla fabbricazione o all’acquisto di armamenti. Evidentemente conta di più un proiettile che una medicina o un’aula scolastica o un servizio pubblico. Tutti elementi che dovrebbero stare alla base del tanto abusato termine democrazia.
Docbrino