A proposito di quanto sta succedendo in Rojava: ignavia quasi totale delle istituzioni occidentali ma per fortuna non della gente

Scusate l’insistenza, ma credo che qualsiasi cosa venga detta a proposito di quanto sta succedendo in Rojava possa avere un suo senso. Non so, non ho le idee chiare, non potrei averle dopo quasi un anno e mezzo trascorso da quelle parti e rispetto a quanto sta accadendo nell’ignavia quasi totale delle istituzioni occidentali. Non della gente, che dimostra di interessarsi eccome (e finalmente) alla questione kurda che non è altro che una dei problemi creati da questa guerra.
Sono naturalmente in contatto con chi da quelle parti è rimasto, con i miei colleghi parte dei quali è stata evacuata in Iraq mentre alcuni altri sono rimasti lì, in attesa di capire se e in che modo si possa fare qualcosa e sostenendo per quanto possibile i partner dei progetti. In particolare dando supporto al sistema sanitario sia in termine di mezzi, UPP ha procurato decine di autoambulanze e gestisce cliniche e il magazzino (unico di quelle dimensioni e refrigerato in tutta la Regione del NES dove vengono stoccati i medicinali e le apparecchiature elettromedicali che vengono distribuiti ed installati nelle strutture sanitarie dell’area) che di coordinamento con Heyva Sor A Kurd (la mezzaluna rossa kurda). Non solo, ovviamente, ma anche con i colleghi locali che lì vivono e patiscono le conseguenze di questo scempio.
È di loro che volevo parlare, perchè mentre per il personale espatriato delle ONG internazionali che operano da quelle parti esiste la scelta (fino ad un certo punto oltre il quale una decente sicurezza non può più essere garantita) di rimanere o andarsene, per chi lì ci abita, ci vive, ha famiglia, casa, affetti, insomma la propria vita, tale scelta non esite. Cerco di sentirli spesso, le moderne tecnologie rendono più facile rimanere in contatto e da questo punto di vista sono fantastiche, ma senza sapere esattamente cosa dire loro se non che nonostante la lontananza sono loro vicino. Mi pare di affermare cose e sentimenti superflui, scontati, ma altro davvero non riesco a fare sentendomi del tutto impotente. Fa rabbia sentirsi privi di ogni possibilità di fare qualcosa di concreto consapevoli che le parole per quanto importanti rappresentino un limite oltre il quale non si va.
Mi immagino cosa può provare una persona che praticamente è in trappola e come unica scelta se non vuole rischiare, è scappare senza nemmeno il più delle volte sapere dove andare. L’alternativa è rimanere lì, aspettando l’evolversi degli eventi e maturando giusta rabbia e inevitabile rancore verso chi davvero potrebbe (e poteva) essere incisivo evitando la catastrofe che si preannuncia. Una mia collega, Handrin con la quale ho condiviso il lavoro, lo spazio, l’amicizia per tutto il tempo in cui sono rimasto lassù, ha lasciato assieme alla sua famiglia la sua casa ad Amuda, appena al di qua del confine con la Turchia per rifugiarsi ad Hasake, un’oretta di strada da Amuda e per ora luogo ancora relativamente sicuro. Ad Amuda ancora non è successo niente, ma da un momento all’altro i turchi potrebbero rimuovere gli elementi del muro che delimita il confine e che si vede a soli un paio di km dalla cittadina.
Molti altri sono di Qamishlo, mezzora da Amuda e dove l’altro giorno un’auto bomba ha provocato una decina di morti. Bomba piazzata all’esternno di uno dei ristoranti (noi li chiameremmo fast food) più frequentati della città; un posto, Omeri, dove non mancavo di andare ogni volta che ero a Qamishlo, e ci andavo spesso. Dove ormai conoscevo i ragazzi che ci lavoravano i quali più di una volta mi avevano offerto un gelato, un assaggio dei loro piatti. I migliori panini al felafel della città. Non so se qualcuno di loro sia tra i morti, spero francamente di no, ma questa cosa mi fa impazzire, non riesco ad immaginare quel posto così vivo, ridotto in macerie e pieno di cadaveri e feriti.
Hassan, amico fraterno che vive appunto a Qamishlo, mi ha mandato un messaggio in cui esprimeva tutta la sua rabbia nei confronti dell’occidente da cui si è sentito giustamente abbandonato, lui, la famiglia e tutti i kurdi. “Trattano meglio i cani che le persone”, mi diceva per poi immediatamente scusarsi nei miei confronti. È d’altra parte difficile sentirsi del tutto inoocenti in questi casi, anche se il senso di colpa non è certo sufficiente e porre rimedio o ad essere di aiuto o confronto.
Orhan, Aras, Hozan, Mosaab e molti altri, giovani che forse dovranno indossare di nuovo la divisa del YPG e tornare a combattere per difendere i propri diritti all’interno del prprio territorio. Orhan, 26 anni e 5 dei quali spesi a combattere nel YPG, un ragazzo sempre sorridente che a tutto dovrebbe poter pensare fuorchè a dover rischiare la pelle di fronte allo strapotere delle forze armate turche e dei fanatici dell Free Syrian Army (che possono anche cambiare nome ma tagliagole rimangono) che i turchi mandano avanti come truppe di terra. I famosi ribelli che l’occidente ha sempre non solo difeso a spada tratta spacciandoli per combattenti per la libertà, ma che ha anche (tutt’ora) foraggiato in termini di armi e risorse. Gli “elmetti bianchi”, che erano stati proposti per il Nobel per la pace, d’altra parte quel premio lo aveva vinto gente come Kissinger…, e ora forse si riveleranno per quello che sono.
Chissà se qualcuno proverà la stessa simpatia per il personale e i volontari della Mezzaluna Rossa Kurda che rischiano la pelle per portare supporto alle strutture sanitarie e alle persone vittime dell’inasione turca. Questi, contrariamente ai famosi elmetti bianchi, non li ho mai visti impugnare un arma, al massimo un bisturi.
Non lo so, vorrei dire molto altro ma sono incazzato e non potrei che aggiungere confusione ai miei pensieri. Pensieri che inevitabilmmente vanno ai miei amici kurdi, ma anche arabi, cristiani o che altro e a tutta la gente che ho avuto il piacere di conoscere e che ora è abbandonata a sè stessa dall’ipocrisia delle autorità e di chi potrebbe decidere di fermare questo macello, ma non ha il coraggio di farlo. Spero solo di poter tornare presto da quelle parti e poter riprendere quello che per ora si è interrotto. Un piccolo aiuto quello della cooperazione, è chiaro, e non può risolvere i problemi di quelle persone, ma che è quel poco di utile che si riesce a fare. Meglio di niente.

Docbrino