Arresti di ‘ndranghetisti in Veneto. Sono affiliati alla ‘ndrina Grande Aracri del crotonese. In Fvg niente manette, forse perchè operano la ‘ndrina Mancuso e la camorra

Nel giro di circa un mese non in Sicilia o in Calabria, ma a nord est, in particolare in Veneto le forze dell’ordine hanno operato un centinaio di arresti per mafia. L’ultima operazione ieri mattina, con una trentina di persone finite in carcere nell’ambito di un’indagine sulla ‘ndrangheta condotta dalla Direzione distrettuale antimafia di Venezia. In sostanza l’operazione Camaleonte è il più grosso colpo inferto alla criminalità organizzata a Nordest. Sono 27 le ordinanze di custodia cautelare in diverse province del Veneto nel clan dei cutresi un’organizzazione criminale di matrice ‘ndranghetista (16 arrestati su 27 sono calabresi, nati quasi tutti tra Locri, Crotone e Cosenza e trapiantati al Nord) ma tutti operavano in Veneto. Ad agire i Carabinieri del Comando provinciale di Padova e i Finanzieri del Comando provinciale di Venezia a seguito delle indagini coordinate dalla Procura Distrettuale Antimafia di Venezia. Le accuse sono gravissime: i reati contestati infatti sono associazione per delinquere di stampo mafioso, estorsione, violenza, usura, sequestro di persona, riciclaggio, emissione e utilizzo di fatture per operazioni inesistenti il tutto fra Treviso, Vicenza, Padova, Belluno, Rovigo sono stati confiscati beni per 20 milioni di euro. Ma all’inizio di febbraio c’erano stati altri 50 ordini di cattura. L’indagine – denominata At Last – era stata condotta dal Gruppo d’investigazione sulla criminalità organizzata delle Fiamme gialle di Trieste e dalla squadra mobile di Venezia. In quel caso l’operazione era contro gli affiliati a clan camorristici in quell’occasione erano stati arrestati anche avvocati, commercialisti e direttori di banca. Il procuratore capo di Venezia aveva parlato di “criminalità strutturata e penetrata nei settori economico e bancario” oggi il procuratore si spinge oltre «In Veneto non si può più parlare di infiltrazioni delle mafie ma di una presenza, una realtà che però è controllabile grazie al solido tessuto sociale». In sostanza per il Procuratore di Venezia Bruno Cherchi, alla luce delle ultime inchieste spiega che «non si può più parlare di presenze a livello locale ma di un quadro di riferimento con struttura regionale». Un riferimento che oltre alle organizzazioni malavitose calabresi comprende anche mafie, come la camorra, oggetto dell’inchiesta portata a termine appunto il mese scorso nel veneziano.  Oltre a riciclaggio ed estorsioni, l’inchiesta aveva documentato anche attività diffuse come le finte assunzioni di centinaia di persone in genere disperati – migranti o prostitute – utilizzati per incassare indennità di disoccupazione, rimborsi fiscali e sussidi vari. A inizio Febbraio era finito in carcere anche il sindaco di Eraclea, a conferma dell’allarme contenuto nella relazione finale della commissione antimafia presieduta, nella scorsa legislatura, da Rosy Bindi. Per la ‘ndrangheta – aveva osservato Bindi – i centri minori del nord stanno diventando come le stazioni di posta ai tempi delle diligenze. La logica è quella dei fortini: da lì, dai piccoli comuni, si fanno varare piani di governo del territorio per le proprie imprese, si ottengono benevolenze in agenzie bancarie, si trovano professionisti disponibili a operare nella black economy, si raccolgono voti per condizionare le amministrazioni. L’ambiente è favorevole perché la corruzione è diventata un fenomeno sistemico, e Roma ladrona – se mai è esistita – è stata clonata all’ombra di cento campanili del nord. Parole forti quelle dalla Bindi che avevano suscitato critiche da parte di chi, a nord est, si era sentito offeso e che oggi dovrebbe fare autocritica perchè chi propugna il silenzio, rischia di essere colpevole così come chi è sodale con il malaffare.
C’è poi una osservazione che corre l’obbligo dover fare, l’inchiesta di ndrangheta di ieri della procura di Venezia riguarda il Veneto ma anche l’Emilia Romagna, mentre non vi sarebbero evidenze, per ora, di influenze sul Fvg come se quelle ‘ndrine avessero rispettato i confini della regione autonoma Fvg. Bene verrebbe da dire, se non fosse che potrebbe essere plausibile pensare che questo sia il frutto delle divisioni territoriali della “famiglie” e che il Friuli Venezia Giulia sia appannaggio di altri e non solo camorra. Solo ipotesi suggestive ovviamente, ma correlate da alcuni segnali negli anni. Il clan di riferimento che opera in Veneto è infatti la ‘ndrina Grande Aracri, una cosca malavitosa della ndrangheta calabrese ( Crotonese) che opera a Cutro, in Calabria, al nord, in Emilia-Romagna, Veneto, Lombardia e all’estero in Germania. Se però approfondiamo la “mappa” delle influenze territoriali delle ‘ndrine fuori Calabria scopriamo che il Fvg sarebbe appannaggio della famiglia Mancuso una ‘ndrina di Limbadi e Nicotera considerata dagli organi investigativi come la cosca più influente della provincia di Vibo Valentia (mente la ‘drina “Veneta” avrebbe appunto origine nel crotonese). Le attività di “business” criminale della cosca Mancuso è il traffico internazionale di sostanze stupefacenti dove sono riusciti ad acquisire un canale privilegiato con i cartelli colombiani. Ma non di poco conto sarebbero le attività di estorsioni e usura come  molto importante per quella famiglia sarebbe il settore degli appalti pubblici. Già nel 2007 una relazione  da parte della Guardia di Finanza raccontava che l’influenza dei Mancuso si era evidenziata anche nel settore dei lavori pubblici aggiudicati mediante appalti, dimostrando la propensione ai connotati tipici di una formazione mafiosa ad elevata vocazione economico-finanziaria che sarebbe poi quella attuata nei potenziali ricchi “mercati” del Nord . Del resto su quella ‘ndrina, ci sono evidenze investigative in tal senso, così come sulla  pratica di attività di riciclaggio dei suoi proventi illeciti in particolare nel contesto turistico alberghiero. Interessante è leggere l’ampia “storiografia” giornalistica ed investigativa sulle attività dei Mancuso, un ascesa che inizia nel lontano 1977 dopo la morte del boss Antonio Zoccali di Vibo Valentia. I Mancuso supportarono la ‘ndrina dei Fiarè di San Gregorio d’Ippona durante la faida contro la famiglia Pardea sempre di Vibo Valentia. Dopo la faida escono vincitori e ottengono la supremazia della zona grazie ai loro collegamenti con le famiglie dei Piromalli e dei Pesce, con le quali stipulano quello che viene considerato una sorta di patto federativo e sempre grazie all’alleanza con questi importanti casati mafiosi i Mancuso entrano anche nell’affare del Porto di Gioia Tauro e del centro siderurgico che doveva sorgere negli anni ’70 nella piana di Gioia Tauro, la ‘ndrangheta si doveva occupare del trasporto della terra e materiali inerti (in base agli accordi raggiunti con le imprese appaltatrici dei lavori) che servivano per la costruzione del distretto industriale e a tal fine Gioacchino Piromalli (a capo di un consorzio mafioso di oltre 100 imprese di trasporto materiali) incarica Francesco Mancuso di acquistare a costo irrisorio trenta lotti a ridosso della cava di Limbadi (regno dei Mancuso) sito quest’ultimo da cui si ricavavano i materiali. Fin qui la storia relativamente passata, ma è evidente che le “competenze” nel settore appalti e quelle relative ai settori di trasporto terra ed inerti, sono diventate patrimonio della rete dei Mancuso, per arrivare al 7 marzo 2013 quando si conclude l’operazione di Polizia di Stato, con la Squadra Mobile di Catanzaro, il ROS dei Carabinieri e il GICO della Guardia di Finanza di Catanzaro e Trieste che porta all’arresto di 24 presunti affiliati ai Mancuso tra cui anche imprenditori e il presunto boss Pantaleone, detto Luni. Questo esponente dei Mancuso viene intercettato ed espone il suo pensiero su cosa sia stata ed è la ‘Ndrangheta e dei suoi rapporti con la massoneria. Quelle intercettazioni erano correlate all’inchiesta nata anni prima quando, la Gdf di Trieste ricevette la segnalazione di movimentazioni bancarie sospette in Friuli Venezia Giulia, poste in essere da soggetti calabresi residenti in Friuli. Così, era il 2011, i militari del Gico della Gdf di Trieste e i finanzieri della Compagnia di Vibo Valentia, sequestrarono beni per un valore di 35 milioni eseguendo 10 provvedimenti di fermo disposti dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. La trama dell’indagine da Trieste era giunta a Vibo, nel momento in cui era stato accertato il coinvolgimento di soggetti appartenenti al clan vibonese. Le persone complessivamente denunciate furono 76 che, attraverso atti estorsivi, usurari e danneggiamenti vari, avevano ottenuto il controllo nel settore economico della distribuzione e commercializzazione all’ingrosso di generi alimentari e nel settore turistico immobiliare in provincia di Vibo con contestuali investimenti e una sistematica attività di occultamento delle ingenti risorse economiche accumulate, avvalendosi di diversi prestanome che erano ufficialmente intestatari di numerosi beni mobili ed immobili. Ovviamente è plausibile sospettare che non tutto il marcio sia emerso e che in questi anni di “affari” ne siano stati fatti molti altri. In Veneto, ci spiegano oggi gli inquirenti, il sistema smascherato è chiaro, i componenti della cosca avvicinavano gli imprenditori e si insinuavano nelle aziende in difficoltà di liquidità concedendo prestiti, fino ad impossessarsi delle aziende stesse, controllandole dall’interno, mettendo in atto anche operazioni di riciclaggio. In alcuni casi questo avveniva con la connivenza di imprenditori veneti. L’obiettivo della criminalità organizzata era riciclare denaro e acquisire capacità di ricchezza “in chiaro” ma, secondo la procura di Venezia alcune attività imprenditoriali sono state letteralmente aggredite “fisicamente”: dopo un primo approccio, come soci, amministratori o addirittura dipendenti imposti, i componenti dei clan passavano ai prestiti usurari facendo valere il loro “peso” soprattutto quando gli imprenditori tentavano di uscire dal sistema.