Autonomia di Lombardia, Veneto ed Emilia secessione dei ricchi? Di certo è funzionale all’obiettivo statutario della Lega: l’indipendenza della Padania
“L’autonomia di Lombardia e Veneto sembra la secessione dei ricchi”. Lo ha detto il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, parlando a margine di una iniziativa che ha organizzato a piazza Montecitorio dal titolo ‘Il sud non è in vendita’. “Si rischia la dissoluzione dell’unità nazionale, aumentano le disuguaglianze e le discriminazioni”. Parole forti quelle del sindaco di Napoli alle quali hanno fatto eco le prese di posizioni di molti politici del sud e non solo.
“Io sono molto favorevole all’autonomia, rispettiamo il voto del popolo della Lombardia e del Veneto, ha proseguito ex Pm, ma il governo deve garantire l’unità nazionale”. Come dargli torto
anche quando aggiunge: “Oltre a costruire la comunità del rancore come stanno facendo inventandosi il nemico, prima erano i napoletani ora gli africani, portano avanti la dissoluzione del nostro paese”. Ovviamente la posizione di De Magistris ha il limite di bypassare le responsabilità della classe politica meridionale che nei decenni si è cristallizzata sulle politiche assistenzialistiche che, dall’epoca democristiana in poi, sono state una sorta di patto fra nord e sud con benefici soprattutto per i primi e la miope accettazione di una subalternità economica per i secondi, mitigata solo da un bel giro di poltrone eccellenti. Come dimenticare quanto avvenuto a partire dagli anni ’50, con l’istituzione della Cassa del Mezzogiorno, quando si inaugurò una politica di interventi straordinari per la soluzione dell’annoso problema del dualismo Nord-Sud. Il divario nel Pil pro capite tra Nord e Sud era ormai drammaticamente esploso dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ebbene quella stagione di fondi e prebende non finì nello sviluppo, ma nelle tasche di un imprenditoria nordista rapace accorsa a drenare risorse per poi lasciare cattedrali nel deserto, quando non direttamente nelle tasche di mafie, mafiosi e loro riferimenti politici eccellenti. Ma De Magistris ha comunque ragione perchè l’autonomia territoriale, certamente un valore, è stata troppo spesso malamente utilizzata in non molte regioni e non solo a sud nonché da alcune Regioni a Statuto speciale come la Sicilia. Altre, come il Friuli Venezia Giulia, l’hanno utilizzata con un certo virtuosismo tecnico che però non è certo compensativo rispetto al “sacco” che è stato compiuto in maniera diffusa tanto che, dall’autunno del 2012, sono emersi una serie di scandali in quasi tutte le regioni italiane. I casi erano tutti simili e riguardavano consiglieri regionali sospettati di aver utilizzato a sproposito gli ampi fondi elettorali messi a loro disposizione dai consigli regionali, come “rimborso” per le spese affrontate per mantenere un rapporto con gli elettori. Molti sono stati assolti, alcuni solo perchè non esistevano vincoli reali espressi in regolamenti al modo disinvolto di utilizzare i fondi, ma il danno è stato reale tanto che l’immagine della politica ne è uscita malamente contribuendo non poco all’ascesa di movimenti come il M5S che dell’antipolitica hanno fatto una bandiera. Ma ndiamo per ordine, tutto iniziò con la riforma del 2001 (approvata con una maggioranza di centrosinistra e poi confermata da un referendum). Lo scopo della riforma del “titolo V” era dare allo Stato italiano una fisionomia più “federalista” inseguendo maldestramente l’ondata “localista” (il federalismo sarebbe stato ben altra cosa) provocata dalle fortune della Lega Nord a trazione bossiana. Con la riforma i centri di spesa e di decisione si sarebbero spostati dai livelli più alti, lo Stato centrale, a quelli più locali, “avvicinandosi” così ai cittadini, si disse. In realtà ad avvicinarsi di più ai capitali furono le sgrinfie di una classe politica ingorda e di una serie di soggetti che hanno fatto della spartizione di appalti e forniture la loro linea guida. Così nel corso degli anni le regioni hanno ricevuto sempre più competenze (la più importante è la gestione della sanità) e una sempre maggiore autonomia senza che questa si traducesse nel miglioramento di beni e servizi al cittadino. Con la riforma del 2001, in particolare, alle regioni fu garantita una certa autonomia in campo finanziario (con cui poter decidere liberamente come spendere i loro soldi) e organizzativo (con cui poter decidere quanti consiglieri e quanti assessori avere e quanto pagarli). La riforma inoltre specificò quali erano le competenze esclusive dello Stato, lasciando alle regioni il compito di occuparsi di tutte quelle non nominate esplicitamente e creando disparità enormi fra i cittadini del medesimo Stato, basti pensare alla sanità con l’avvio massiccio delle migrazioni per ragioni di salute.
Il denaro che le regioni possono spendere piuttosto liberamente grazie a questa autonomia arriva da una serie di imposte: compartecipazione all’IVA, addizionale IRPEF e IRAP. Le prime due sono imposte raccolte dallo Stato, che poi ne versa parte nelle casse delle regioni, mentre la terza è un’imposta regionale. Tutte e tre però hanno la caratteristica di non garantire alle regioni un ampio margine di manovra. Ovviamente un sistema così pasticciato fece manifestare presto alcuni problemi fra cui uno legislativo, lasciando infatti alle regioni tutte le materie la cui competenza non è esclusivamente dello Stato si sono creati numerosi contenziosi tra regioni e Stato anche di livello costituzionale. Si tratta di un aspetto molto visibile di un fenomeno più ampio.
In considerazione anche di questo la possibile decisione di dare maggiore autonomia ad alcune regioni in realtà per alcuni è esattamente il contrario di quanto andrebbe fatto. L’autonomia infatti, quando la vogliono i ricchi, si scrive sovranismo e alla fine è sinonimo di egoismo. Ed è quello che rischia di accadere dando corpo oggi alla forma plateale della Lega della prim’ora quando vinceva le elezioni al grido di “Roma ladrona” o “padroni a casa nostra” giocata oggi non con gli slogan ma in punta di “diritto” normativo. Ma in realtà alla fine, anche se la riunione di governo giallo-verde ha fatto registrare una battuta d’arresto per resistenze grilline che quasi certamente verranno piallate dal rischio inaccettabile per loro di perdere la panacea dei ministeri, il risultato sarà quello leghista reclamato da tempo da parte delle regioni più ricche, cioè trattenere per se tutta la ricchezza prodotta senza doverla spartire con quelle più povere. Non è infatti un caso che le regioni che chiedono questa nuova forma di autonomia sono le ricche regioni del nord (“rossa” Emilia Romagna compresa” che dimenticano che parte delle loro fortune sono state il frutto del lavoro di molte generazioni di uomini e donne del sud. Lo aveva capito benissimo già Antonio Gramsci che vedeva nella coalizione tra proprietari terrieri del Sud e borghesia settentrionale l’impedimento alla soluzione della questione meridionale, legata al mantenimento di un Sud arretrato. Il sacrificio del Sud era collegato, per Gramsci, allo sviluppo industriale del Nord. Ne “L’Ordine Nuovo”, rivista gramsciana, si poteva leggere, infatti: “La borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le Isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento; il proletariato settentrionale, emancipando se stesso dalla schiavitù capitalistica, emanciperà le masse contadine meridionali asservite alla banca e all’industrialismo parassitario del Settentrione”, ma questa emancipazione a “rivoluzionaria” come è noto non è avvenuta, ma che fosse difficile del resto lo aveva intuito lo stesso Gramsci, quando parlava di un freno nella ideologia che anche il Partito Socialista e quello che potremmo oggi definire una politica delle fake news aveva contribuito a diffondere tra gli operai del Nord, secondo cui: “il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali[…]”. Parole quest’ultime smentite dalla storia e dai fatti ovviamente ma che oggi ritroviamo nella narrazione leghista riferita sempre meno verso i “terroni” sostituiti in questo scomodo “ruolo” dai migranti foresti e “clandestini”. Questo è avvenuto solo perchè alcuni furbi dirigenti leghisti (uno in particolare) hanno capito che se vuoi governare l’obiettivo devi riunire gli egoismi sotto l’unica bandiera di “prima gli italiani”, anche se intanto trami per mantenere i differenziali territoriali fra nord e sud del Paese. Insomma i leghisti si sono “raffinati” e si sono concentrati sugli spazi offerti dalla legge ed alla fine hanno trovato il modo per ottenere in forma strisciante ciò non erano riusciti a conquistare con lo scontro frontale quando Bossi parlava di “doppiette padane”.
L’occasione l’ha data loro la miopia politica del centrosinistra che pensava di recuperare consensi in salsa federalista arrivando, appunto nel 2001, alla modifica di alcuni articoli della Costituzione che fra le altre novità, come abbiamo già visto, introduceva la possibilità per le regioni che lo richiedano di potere godere di maggior autonomia su una serie di tematiche, alcune riservate allo Stato, altre di competenza condivisa che oggi si vorrebbero ampliare. Parliamo di settori chiave come la pubblica istruzione, la sanità, la previdenza integrativa, ma anche la ripartizione di parte degli introiti fiscali. Presa la palla al balzo da subito si registrarono diverse iniziative regionali per ottenere maggiore autonomia: la Toscana nel 2003 per i beni culturali, poi nel 2006-08 il Veneto, Lombardia, Piemonte, su varie altre materie. Ma nessuna di esse arrivò mai in porto, anche per l’atteggiamento ostile del IV Governo Berlusconi (2008-11). Nel periodo più recente, tuttavia, come vediamo oggi la questione ha ripreso slancio e vigore contando nell’appoggio del governo a trazione leghista e nell’incapacita del M5S di contrastare il traboccante strapotere salviniano. Nel 2017, tre regioni, Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, hanno formalmente richiesto al governo di poter godere di maggiore autonomia e il 28 febbraio 2018, pochi giorni prima delle elezioni generali del 4 marzo, il Governo Gentiloni, mettendo il collo in un capestro, aveva concluso con ciascuna di esse una pre-intesa. I testi, molto simili fra loro, si concentrano su tre questioni chiave: la durata di maggiore autonomia, i temi oggetto di maggiore autonomia, le risorse di spettanza. La durata è di 10 anni durante i quali sono possibili revoche solo se entrambi le parti sono d’accordo, che vuol dire che non avverrà mai. Le tematiche sono quelle delle politiche del lavoro, dell’istruzione, della salute, della tutela dell’ambiente, ma perfino dei rapporti internazionali e con l’Unione Europea. Quanto alle risorse, la pre-intesa stabilisce che andranno determinate da un’apposita Commissione paritetica Stato-Regione, inizialmente in base ai fabbisogni standard, poi anche in base “al gettito dei tributi maturato nel territorio regionale”. Un meccanismo infernale che da giuridico è in realtà una questione politica di grande rilevanza sociale. Del resto era questo il vero obiettivo a cui puntano le tre regioni richiedenti che non a caso sono fra le più ricche d’Italia e che faranno da apripista. Il fabbisogno standard indica il livello di servizio da garantire e poiché deve essere uguale per tutta Italia, è stabilito dal governo centrale. La misura è stata voluta dalla Costituzione per mettere tutti gli italiani sullo stesso piano di parità. Una volta stabilito il fabbisogno standard, uguale per tutta Italia, si stabilisce anche il suo costo procapite. Quindi si assegna ad ogni Regione un ammontare pari al costo pro-capite moltiplicato per il numero di cittadini residenti. In altre parole a determinare quale Regione riceve di più e quale di meno è solo la diversa quantità di popolazione. Un criterio di equità, ma se a questo si aggiunge l’elemento distorsivo che le risorse sono determinate anche in base alla quantità di gettito generato nella Regione, allora si inserisce un elemento di pesante diseguaglianza perché quelli che risiedono nelle regioni più ricche disporranno alla fine dei conti di un ammontare pro-capite più alto di quelli che abitano nelle regioni più povere. In concreto succederà che ancora più che oggi l’ammalato del Veneto godrà di migliori cure di quello della Calabria, così lo studente dell’Emilia Romagna avrà migliore istruzione di quello del sud o delle isole. Insomma si peggiorerà il divario Nord-Sud già molto profondo basti pensare che il rapporto Svimez 2018 ci racconta che “l’ammontare della spesa pubblica complessiva consolidata, intesa come spesa di Amministrazioni centrali e territoriali, si presenta significativamente più basso nel Mezzogiorno: 6.886 euro per abitante nel 2016 contro i 7.629 euro del Centro-Nord”. Insomma un trappolone enorme che è stato acriticamente e distrattamente lasciato passare nel mitico contratto di governo stipulato fra Lega e Movimento 5 Stelle (che prende la maggior parte dei voti al sud). Si legge infatti nel “contratto” che è “questione prioritaria nell’agenda di Governo l’attribuzione, per tutte le Regioni che motivatamente lo richiedano, di maggiore autonomia in attuazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione, portando anche a rapida conclusione le trattative tra Governo e Regioni attualmente aperte.” Detto fatto e la raccomandazione è stata prontamente accolta da Erika Stefani, ministra agli affari regionali. Non a caso Salvini ha voluto per la Lega quel ministero, che nell’autunno 2018 ha raggiunto intese definitive con le tre regioni “padane”. Ed oggi che hanno ottenuto anche l’approvazione del governo, sono in procinto di essere sottoposte all’approvazione del Parlamento che però non ha possibilità di emendarle né di entrare nel merito dei suoi contenuti. Può solo approvarle o respingerle. Se verranno approvate, tutto il potere di definizione degli specifici contenuti normativi e finanziari verrà demandato a Commissioni paritetiche Stato-Regione, sottratte a qualsiasi controllo parlamentare. Così si concretizza l’idea secessionista presente anche nello statuto nuovo della Lega che così recita all’articolo art. 1: “Finalità Lega Nord per l’Indipendenza della Padania” (di seguito indicato come “Lega Nord”, “Lega Nord – Padania” o “Movimento”), è un movimento politico confederale costituito in forma di associazione non riconosciuta che ha per finalità il conseguimento dell’indipendenza della Padania attraverso metodi democratici e il suo riconoscimento internazionale quale Repubblica Federale indipendente e sovrana”.