Caso Unabomber, alla ricerca di nuove prove. Intanto in 11 finiscono alla gogna dei “presunti colpevoli”

In questi giorni tutti i giornali e le tv italiane riportano la notizia della riapertura delle indagini sulle malefatte dell’Unabomber italiano. Come è noto da tempo la novità, dopo anni, nascono dalle presunte nuove potenzialità dei test sul Dna che l’evoluzione tecnologica di questa tecnica scientifica consente oggi  su dieci reperti da tempo negli archivi degli investigatori. Fin qui una notizia positiva sull’onda dei “cold case” il temine inglese entrato comunemente nella terminologia corrente che letteralmente significa “caso freddo” indicando tutti quei casi di cronaca nera che sono rimasti senza un esito e pertanto sono da considerarsi “ irrisolti”. La richiesta di riapertura del caso può basarsi sia sulla emersione di nuovi elementi, sia su una diversa interpretazione degli elementi già presenti agli atti soprattutto (anche se non solo) alla luce delle nuove acquisizioni in tema di Scienze Forensi nel loro complesso. In particolare proprio le nuove tecnologie sono spesso alla base della richiesta di riapertura delle indagini in un “cold case” è questa è la motivazione che ha spinto la procura di Trieste, alla quale è giunta una “spinta” dalle vittime a riaprire le indagini. Meno virtuoso però è aver consentito  che venissero  “sbattuti in prima pagina” i nomi e cognomi di 11 indagati. Non solo questi  in quanto solo indagati sono innocenti fino a prova contraria, ma in questo caso certamente almeno 10 sono estranei ai fatti. Quello che appare sorprendente è che proprio nei giorni in cui ci si preoccupa di limitare le intercettazioni telefoniche per salvaguardare la privacy di presunti corrotti corruttori, nessuna della anime sante tante sensibili alla difesa della dignità delle persone e che si sono schierate con il ministro Nordio per la “rarefazione” della pratica intercettiva,  si sia preoccupata di dire che è sbagliato sbattere “mostri in prima pagina”.  Infatti pur evidenziando che si tratta di indagati e non di colpevoli, i nomi degli undici che sono entrati in un modo o nell’altro nel setaccio delle nuove indagini, sono finiti alla gogna mediatica. Dando per scontato (forse) che la stampa sia stata prudente, spiegando la differenza fra indagato e presunto colpevole, non così sarà stato nella melma dei social.  Eppure è ovvio che indicare nomi e cognomi e perfino luogo di residenza, quando non altri particolari, avrebbe portato pregiudizio nei confronti di quelle persone, perchè la cosiddetta opinione pubblica , purtroppo, poco distingue fra indagato e presunto colpevole, preferendo, nel dubbio, un giudizio negativo. In sostanza nell’immaginario collettivo rischia di passare non  la presunzione d’innocenza (fino a prova contraria), ma la certezza di colpevolezza di chi la propria estraneità la deve dimostrare. Insomma l’inversione di quanto corretta giustizia vorrebbe.   Ovviamente non si può addossare colpe alla procura o al tribunale che hanno seguito le procedura. Una prassi che diventa gogna.  Così quando il giudice per le indagini preliminari di Trieste, Luigi Dainotti, scrive: “Sarà necessario acquisire i profili genetici di Luigi B., Claudio B., Angelo L., Cristiano M., Giovanni Fausto M., Luigi P. e Galliano Z.” ( cognomi in chiaro che noi omettiamo per ovvia coerenza ndr) mentre il Dna degli altri (le cui generalità sono state recuperate facilmente ndr) era già a disposizione del Ris di Parma, era ovvio che quei nomi sarebbero finiti non solo ai giornalisti che qualche cautela la mettono, ma anche nel frullatore dei social . Lo steso Dainotti aggiunge, prudenzialmente: “Va chiarito che al momento non sono stati acquisiti a carico di alcuno dei soggetti sottoposti a indagine elementi più significativi e che la loro menzione in questa sede deriva soltanto dall’esigenza di evitare possibili future prospettazioni di nullità o inutilizzabilità dei risultati dell’incidente probatorio richiesto”. In sostanza il Gip di Trieste, Dainotti che ha fissato per il prossimo 13 marzo l’udienza con cui affiderà a un esperto l’analisi del Dna sui reperti del famigerato Unabomber, chiarisce la natura delle indagini, ma è ovvio che questo non basterà a mettere a riparo la vita sociale dei soggetti posti ad indagine sui quali calerà l’orribile ombra del sospetto di aver compito crimini orrendi. I periti saranno la professoressa Elena Pilli dell’Università di Firenze e il colonnello Giampietro Lago, comandante del R.I.S. di Parma. Il procuratore De Nicolo che ha riaperto le indagini, spiega: “Nel corso dell’udienza è ragionevole attendersi che i periti chiedano un congruo termine per lo svolgimento dell’incarico, termine che normalmente viene stabilito in 60 o in 90 giorni. Alla conclusione i periti depositeranno il loro elaborato, nel quale verrà data risposta ai quesiti formulati dal giudice”. Quindi gli undici presunti colpevoli rimarranno sulla graticola del sospetto molti mesi e la domanda che sorge spontanea è se era proprio necessario fare emergere i nomi.
Ricordiamo che Unabomber sarebbe il misterioso individuo che dal 1994 al 2006 ha disseminato il Nordest di ordigni esplosivi, mutilando orribilmente persone innocenti che da anni aspettano giustizia. Fra l’altro è emerso che nell’elenco dei 28 attentati (che causarono numerosi feriti) c’è un nuovo episodio: una bottiglietta di Coca Cola con esplosivo che venne trovata da un cacciatore il 28 ottobre 2007 a Zoppola (Pordenone). I reati ipotizzati sono di attentati per finalità terroristiche o di strage, con l’aggravante dell’associazione con finalità di terrorismo. L’incidente probatorio servirà per estrarre le tracce biologiche da una decina di reperti recuperati sui luoghi di cinque attentati allo scopo di confrontarli con i profili genetici degli undici indagati e con quelli delle persone inserite nella banca dati Dna. Si tratta dei peli trovati in un ordigno inesploso trovato il 6 marzo 2000 e inserito in una bomboletta di stelle filanti durante il Carnevale di San Vito al Tagliamento. Poi ci sono i peli dell’uovo-bomba inesploso lasciato in un supermercato di Portogruaro il 31 ottobre 2000. Inoltre, i peli trovati su un tubo-bomba che nel novembre 2000 ferì una donna in una vigna a San Stino di Livenza. C’è anche il nastro isolante su una confezione di pomodoro esplosa in mano ad una donna il 6 novembre 2000. Infine, il nastro isolante usato per imbottire di esplosivo un tubetto di maionese trovato in un supermarket a Roveredo in Piano nel novembre 2000. Impronte da analizzare sarebbero state trovate anche in una bomba esplosa nel bagno del Tribunale di Pordenone nel 2003, in un inginocchiatoio di una chiesa, su una scatoletta di sgombro inviata a un convento di suore in Romania, nella bomba piazzata sotto la sella della bici di una donna nel 2005 a Portogruaro.