Congresso Pd Fvg: Un partito in dissonanza cognitiva?
“Mi sento di ringraziare tutti i dirigenti e i militanti, ma veramente tutti, che stanno continuando a lavorare per un Pd più forte, grande e davvero alternativo al blocco di destra oggi maggioritario. Là fuori, c’è chi deciderà di volta in volta, c’è chi lancia esche nel nostro partito e chi vuol fare la sua raccolta sui territori. Teniamoci stretti a questa casa, costruita per essere accogliente e attrattiva”. Lo scrive su Facebook la deputata Debora Serracchiani, responsabile Giustizia del Pd e certamente non estranea alle dinamiche Dem in Fvg.
Bene, parole certamente condivisibili da gran parte dei militanti e simpatizzanti di quel partito se non fosse che, leggendo le liste congressuali regionali del Partito Democratico del Fvg, la sensazione di “disordine” resta alta. Il Pd nelle sue candidature sembra affetto da “dissonanza cognitiva” intesa come difformità, senza ammetterlo o riconoscerlo, rispetto alle tendenze del comportamento passato. Con le sempre opportune eccezioni, c’è infatti da essere sconcertati da alcune presenze “incrociate” nelle candidature e perfino politicamente sgradevoli, per quanto hanno appunto fatto e rappresentato in passato, senza minimamente ammettere errori e fallimenti. L’impressione è che si cambi tutto senza cambiare nulla, perché il gruppo dirigente che verrà fuori è per molte sue parti uguale a se stesso. Intendiamoci, non dovrebbero essere altrove, magari di lato sì, se non semplicemente a casa. Bisogna però dire che i Dem sono l’unico partito a mettersi in discussione, costantemente in discussione, troppo in discussione con meccanismi e regole cervellotiche, senza però mai uscire dall’angolo dove si è messo. Crediamo di interpretare il pensiero di una parte, forse perfino maggioranza, di elettorato di sinistra silente (gli iscritti sono come è noto altro) che ha visto nelle recenti primarie una occasione di svolta, soprattutto dopo le parole della neo eletta segretaria nazionale Elly Schlein che aveva lanciato il suo guanto di sfida: “Non vogliamo più capibastone e cacicchi”, aveva promesso. Ma quello slogan doveva essere riempito di contenuti ed invece l’impressione è che ora si fanno i conti con la realtà di un partito che non è riuscito, se non in maniera balbettante, a fare autocritica rispetto alla lunga fase del renzismo con il suo corollario di errori, che si trascina ancora nelle sue viscere, come quei virus annidati negli organi vitali e che riemergono facendo alzare la febbre, annebbiando le prospettive e perfino obnubilando l’azione politica. Siamo consapevoli che non si può cancellare con un colpo di spugna le persone, anche se qualcuno in passato l’ha fatto, ma è evidente che l’influenza che alcuni storici (o presunti tali) esponenti dem hanno ancora sul partito anche a livello locale, rischia di vanificare quella spinta propulsiva sulla quale molti avevano sperato facendo diventare parole vuote perfino i titoli delle liste. Quel “Ripartiamo” di Caterina Conti e quel “#Voltapagina” di Franco Lenarduzzi rischiano di diventare slogan fine a se stessi, vuoti titoli sotto i quali, al di là delle buone intenzioni dei due candidati, si annida anche una pletora di personaggi in cerca semplicemente di mantenere il proprio piccolo e spesso inutile pezzetto di potere. Intendiamoci nulla contro i candidati segretari ai quali auguriamo successi imperituri, ma è evidente che le liste che li accompagnano si sono formate sulla base di criteri che difficilmente faranno “ripartire” alcunché e men che meno “voltare pagina” con cancelletto “chic” o meno.
Speriamo sinceramente di sbagliarci e che chiunque vinca sia in grado di non attorniarsi di vari “sìgnorsì”, perché è inutile pensare ad un alternativa alla destra, in Fvg come del resto a Roma, senza un partito democratico in grado di esprimere politiche chiare e coerenti, di battagliare contro diseguaglianze e ingiustizie, di essere centro di gravità di una area sempre più smarrita, magari attingendo alla maggioranza di elettori non votanti. Certo, questo è difficile avvenga nella sostanziale continuità della classe dirigente, soprattutto di quella parte che nel passato si era allineata e coperta acriticamente nella tribù renziana e che ora fischietta facendo finta di niente. Nessuno pretendeva forche caudine, ma nemmeno l’indifferenza. Un minimo di onesta autocritica sarebbe stata gradita, magari prendendo chiare posizioni su questioni come il jobs act, autonomia differenziata o riforma elettorale e costituzionale che vede in molti essere ancora, nell’ambiguità, sponsor di fatto, del premierato o peggio del presidenzialismo magari mascherato con la formuletta demenziale del “sindaco d’Italia”. Teniamo sempre presente che fior di analisti ci raccontano che ormai da decenni anni il nostro elettorato è ai primi posti in Europa nella classifica dell’analfabetismo funzionale diventando per questo vulnerabili al messaggio massmediatico del “leader o capo o guida” che tutto può e vede, che tutto risolve con la semplicità di un Salvini qualsiasi o peggio di una furbacchiona di nome Giorgia. Se poi vi è totale assenza di serie politiche di comunicazione dato che colpevolmente si è lasciata ogni forma di giornalismo in mano agli avversari preferendo i messaggini autoreferenziali senza contraddittorio in stile Tic Toc, il rischio della sparizione mediatica diventa più che concreta, una certezza. Di questi giorni la notizia che ormai esiste una rete mediatica pro Meloni che si ispira a Trump nel nome di Antonio Angelucci. La premier, cheta cheta, sta costruendo la sua galassia comunicativa nazionale sui tre principali giornali di destra: “Il Tempo” e con la nomina di Sechi a direttore di Libero e Sallusti al Giornale il tridente è completo. Una rete mediatica ampia e trasversale in quotidiani e tv, ma che ha il suo centro vitale nel gruppo editoriale ormai riferimento unico della destra, quello appunto di Antonio Angelucci: ras della sanità laziale e deputato eletto con la Lega ma ormai in grande sintonia con la presidente del Consiglio. A sinistra invece ci si riferisce ancora a Repubblica che meglio non ha saputo fare che svolgere il suolo di lancio del libro del generale Vannacci che senza l’enorme cassa di risonanza data alla ricerca dello scoop estivo, sarebbe rimasto un flop come meritava. Se aggiungiamo a questo l’operazione editoriale a nordest messa in piedi da un gruppo di prenditori non certo progressisti, l’isolamento nel quale potrebbe trovarsi la sinistra diventa una garrota terminale, anche se siamo certi che taluni cacicchi contano nei buoni auspici personali che pensano di aver ottenuto dispensando favori in passato. Ma forse non hanno fatto i conti con il fatto che per certi personaggi, la riconoscenza è fattore sconosciuto, perché è solo merce e se non hai nulla da dare in cambio nulla ricevi.
Fabio Folisi
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