Dati sull’occupazione in aumento drogati. Tempi indeterminati ma prevalentemente finti part time
Sono passati 18 mesi dall’inizio della pandemia e l’Istat ci racconta che nel primo semestre del 2021 l’occupazione nel nostro Paese è ripartita, così come le previsioni di un Pil mai così generoso. In realtà non è tutto oro quello che luccica. Innanzitutto il Pil non è detto si traduca in nuova occupazione ma più probabilmente in maggior profitti per i soliti noti, mentre il dato occupazionale è drogato dal fatto che è sempre più “part time”, il più delle volte “subito”, non richiesto cioè dal lavoratore o dalla lavoratrice per esigenze previste dalla legge, ma proposto come condizione contrattuale di accesso al lavoro dalle imprese, con il sospetto che in realtà siano par time mascherati, o meglio ….ti assumo per quattro ore, ne fai otto te ne pago sei. Secondo i dati nazionali a giugno di questo anno, dei 3.322.634 contratti complessivamente attivati (di cui 2.006.617 a uomini e 1.316.017 a donne), oltre un milione e 187 (il 35,7%) sono part time. Questo dato presenta rilevanti differenze di genere: quasi la metà (il 49,6%) delle nuove assunzioni di donne è a tempo parziale, contro il 26,6% degli uomini. E Il 42% dei nuovi contratti di donne associa al regime orario a tempo parziale anche una forma contrattuale a termine o discontinua – debolezza che riguarda solo il 22% della nuova occupazione maschile. A rendere noti i dati è stata l’agenzia9 colonne che ha ripreso l’anticipazione del policy brief “Una ripresa… a tempo parziale” dell’Istituto Nazionale per le analisi delle politiche pubbliche (INAPP) che fotografa la ripresa occupazionale, attraverso i dati sui nuovi contratti attivati nel primo semestre e che a breve sarà disponibile sul sito dell’Istituto (www.inapp.org). “La lettura di questi dati ci dice che la ripresa dell’occupazione in Italia rischia di non essere strutturale perché sta puntando troppo sulla riduzione dei costi tramite la riduzione delle ore lavorate – ha spiegato il prof. Sebastiano Fadda, presidente di INAPP – La “prudenza delle imprese” rischia di incrementare la fascia di lavoratori poveri e il gap di partecipazione e reddito esistente tra uomini e donne. Il traino del Piano di ripresa e resilienza dovrebbe essere invece l’occasione per spingere sulla creazione di lavoro stabile, perché senza la prospettiva di una graduale stabilizzazione dei rapporti di lavoro si rischia di avere effetti negativi sulla produttività e sulla competitività”. Nello specifico, “la componente femminile rappresenta complessivamente il 39,6% del totale delle attivazioni, confermando il consolidato gap di genere nell’occupazione – si legge nello studio – Si assiste, quindi, ad un numero di nuove attivazioni per le donne inferiore a quello degli uomini in valore assoluto, ma con un’incidenza del part time molto più consistente”. “Questa situazione si registra in tutte le tipologie contrattuali. Sul totale deli nuovi contratti a donne, sono a part time: il 54,5% nel tempo indeterminato, il 63,7% nel tempo determinato, il 44,5% in apprendistato, il 45,9 % in lavoro stagionale e il 42,4% % in somministrazione. Per quanto riguarda i settori economici, le nuove assunzioni di donne sono in valore assoluto inferiori a quelle degli uomini ad eccezione del settore finanziario-assicurativo, immobiliare e di amministrazione pubblica comprese le organizzazioni extraterritoriali. In tutti i casi, comunque, la quota di part time femminile è sempre maggiore di quella maschile. Inoltre, nel caso dell’agricoltura, commercio, attività immobiliari, professionali, artistiche e amministrazione pubblica istruzione, sanità e assistenza, i contratti part time costituiscono la forma di lavoro prevalente per le donne, superando l’incidenza del 50% sul totale. A livello territoriale, nelle regioni del centro nord che hanno attivato le maggiori quote di contratti a donne, si riproduce il “fisiologico” squilibrio di genere del part time sinora evidenziato. Spicca invece nel Sud, in particolare con Sicilia Calabria Molise, il legame il tra ridotto numero di contratti attivati e una percentuale di par time intorno al 70%, indice di una profonda instabilità di prospettiva della ripresa. Part time e precarietà non sono ridotte dalla presenza di un incentivo alle assunzioni. Lo studio evidenzia come “nel I semestre del 2021 le assunzioni con diverso tipo di agevolazione sono state complessivamente 780.128, corrispondenti al 23,5% del totale delle assunzioni. Delle 291.548 assunzioni agevolate di donne (corrispondenti al 22,2 % del totale di tutte le assunzioni femminili), quasi il 60% sono state a part time. Delle 488.580 assunzioni agevolate di uomini (pari al 24,3% del totale delle assunzioni maschili) è a part time solo il 32,5%”. “In questo scenario, il ricorso ad agevolazioni alle assunzioni non ha portato ad una correzione di tendenza” – ha concluso il presidente dell’INAPP – “Continuiamo a trovarci di fronte, pur in presenza di incentivi economici o contributivi, al noto squilibrio di genere: assunzioni femminili minori in valore assoluto e con un’incidenza di part time molto più elevata della componente maschile”. Occorre avviare una riflessione sul ruolo “migliorativo” e selettivo che, a partire proprio da questa fase di riavvio, dovrebbe caratterizzare il sistema degli incentivi. Il PNRR, d’altronde, con le clausole di condizionalità già si muove in questa direzione”.