Fedriga fa appello al giornalismo di qualità, peccato che le fake non sono social, ma corrono anche sull’inchiostro di certa carta stampata

Le parole pronunciate ieri dal Presidente del Fvg Massimiliano Fedriga nel corso dell’evento di presentazione del francobollo commemorativo per il 140° anniversario di fondazione del quotidiano Il Piccolo, sono parzialmente condivisibili e si spera non solo frutto della contaminazione ambientale, ma di sincero convincimento. Anche se vorremmo, da parte della Regione Fvg, più trasparenza, magari sui dati  dei posti letto e minore autoreferenzialità nei lanci dell’agenzia di stampa regionale di cui Fedriga è editore. Giusto però  da parte del Presidente l’aver parlato delle “follie veicolate dai social durante la pandemia”, corretto anche l’aver detto “oggi ritengo ancora più importante il giornalismo di qualità che si poggia su una solida deontologia professionale e che va assolutamente valorizzato. Per me adesso è molto più marcata la distinzione fra chi fa informazione in modo trasparente e assumendosi precise responsabilità e chi utilizza gli strumenti tecnologici esclusivamente per divulgare falsità”. Detto questo però sembra che Fedriga scambi il tipo di mezzo comunicativo con la professionalità. Il problema non è se vi siano più fake sui social e in generale sul web o ella carta stampata, in Tv o in radio. Il problema è in parte di regole non rispettate, regole non chiare ed assenza di professionalità in una categoria ormai inquinata da soggetti comunicatori che la deontologia non sanno dove sta di casa. Facciamo allora un esempio odierno uscendo dai confini regionali: oggi i quotidiani che possiamo definire schierati a destra riportano titoli di prima pagina, come spesso accade, sguaiati, ma questo è un problema di stile, ma soprattutto riportanti una enorme falsità utile per attaccare l’obiettivo salviniano del momento. Infatti si mette in correlazione la tristissima vicenda di cronaca del caporalato con il ministro Lamorgese. Partiamo dalla cronaca che sintetizziamo utilizzando un semplice lancio d’agenzia di ieri: “La moglie del prefetto Michele di Bari, capo del Dipartimento Libertà civili e immigrazione del Viminale, è tra i 16 indagati in un’inchiesta a Foggia sul caporalato. In carcere sono finiti due stranieri, un senegalese e un gambiano, mentre nei confronti degli altri tre arrestati dai Carabinieri sono stati disposti i domiciliari. Obbligo di firma per gli altri11, tra cui la moglie del prefetto. Di Bari ha rassegnato le dimissioni dall’incarico che sono state accettate dal ministro Lamorgese, comunica il Viminale”. Una vicenda orribile di sfruttamento di lavoratori immigrati e di probabili collusioni con pezzi dello Stato. Da questa notizia, sulla quale per correttezza bisognerebbe avere un minimo di cautela rispetto al ruolo del Prefetto Michele Di Bari, allo stato solo reo di avere una moglie in odore di delinquenza, si sono scatenati con fare sciacallesco e ribaltando la verità i quotidiani del centrodestra. Obiettivo il Ministro Lamorgese. Titoli di prima del tipo: L’uomo della Lamorgese nei guai per i Clandestini (Libero) Inchiesta sul caporalato. Trema il Viminale (Il Giornale), Il Ministro Lamorgese perde pezzi Romanzo Viminale. (La Verità). Ma in realtà quei titoli non solo sono eccessivi ma raccontano esattamente il contrario della realtà. Il Prefetto Michele Di Bari Capo del Dipartimento Libertà civili e immigrazione del Viminale non è stato nominato dalla Lamorgese, ma da Matteo Salvini, che probabilmente lo volle premiare per gli ottimi servigi forniti quando, da prefetto di Reggio Calabria, prese di petto Mimmo Lucano, l’ex sindaco di Riace condannato (ingiustamente) a 13 anni e 2 mesi dal Tribunale di Locri al termine del processo “Xenia”. Processo basato sulle ispezioni disposte a Riace attraverso gli ispettori inviati con specifico mandato assieme a quelli dello Sprar spediti direttamente dal ministero dell’Interno. Del resto che l’allora prefetto di Reggio Calabria avesse influenzatole scelte ispettive sta anche nelle carte del processo a Lucano, addirittura nella requisitoria della pubblica accusa del procuratore di Locri, Luigi D’Alessio che disse espressamente “Quello che ha mosso questa indagine è la relazione prefettizia molto dettagliata”. Parole pronunciate nel maggio scorso, aprendo l’udienza dedicata alla requisitoria del pm Michele Permunian che aveva chiesto, per Lucano, 7 anni e 11 mesi di reclusione. D’Alessio si riferiva all’ispezione del viceprefetto Salvatore Gullì inviato a Riace, guarda caso dal prefetto Michele Di Bari. Una relazione del dicembre 2016 nella quale la prefettura evidenziava una serie di criticità nella gestione dei progetti di accoglienza sulla base di un teorema preciso. Il viceprefetto Gullì lo scrisse nello stesso documento: “L’ispezione è stata condotta partendo dal presupposto che gli aspetti positivi di cui si è detto non giustificano di per sé previsioni derogatorie alla normativa ordinaria”. Fossimo maliziosi potremmo dire che si voleva sostituire il modello Riace con quello dei “caporali”.   Detto questo appare ovvio che alla Lamorgese non si può attribuire alcun ruolo nella nomina di Michele Di Bari a Viminale al massimo si potrebbe eccepire che forse quel ruolo avuto nella vicenda di Mimmo Lucano poteva essere un campanello d’allarme per sostituirlo, ma questo presupponeva una sensibilità che un ministro di un governo di “larghe intese” non poteva avere.

Fabio Folisi